venerdì 26 marzo 2010

LECTIO DIVINA: DOMENICA DELLE PALME, Anno Liturgico C


Orazione iniziale
Spirito santo, effuso sul mondo dal divino Morente, guidaci a contemplare e comprendere la via dolorosa del nostro Salvatore e l’amore con cui Egli l’ha percorsa. Donaci occhi e cuore di veri credenti, perché si sveli a noi il mistero glorioso della sua croce. Amen.
Domenica delle palme: Chiave di lettura:
Questo giorno liturgico viene designato con due denominazione: “domenica delle palme” e “domenica della passione del Signore”. Esse sono complementari perché l’ingresso messianico di Gesù in Gerusalemme dà inizio al dramma che si conclude con la sua crocifissione. Per entrambe queste ricorrenze la liturgia propone alcune letture bibliche che trovano il loro punto sintetizzante nel racconto della passione di Gesù.
Nella prima lettura (Is 50,4-7), il profeta Isaia presenta il misterioso “servo di Jahvè” che va incontro a terribili sofferenze per amore di Dio e dei suoi fratelli peccatori (amplificato dal salmo responsoriale, Sal 21), nonché un testo paolino (seconda lettura: Fil 2,6-11) che riconosce in Gesù il “servo di Dio” dedito al compimento della volontà divina di salvezza. La liturgia di questa domenica è, quindi, tutta dedicata alla “Parola della Croce” (1Cor 1,18), che si condensa in sintesi narrativa e teologica nel racconto della passione. Data l’ampiezza di questo racconto, la Lectio di questa domenica si dedica ad esso per intero.
                 Passione di Gesù secondo Luca: Lc 22,14-23,56.
Contesto evangelico:
É noto che il nucleo letterario attorno al quale si sono formati i vangeli è proprio il racconto della Pasqua del Signore: passione, morte e resurrezione. Siamo, dunque, di fronte a un testo abbastanza antico e unitario nella sua composizione letteraria, sebbene si sia formato gradualmente. La sua importanza è comunque capitale: viene narrato l’evento fondamentale della fede cristiana, quello col quale ciascun credente deve costantemente confrontarsi e conformarsi.
Nel contesto del terzo vangelo, Gesù si reca nella Città santa una sola volta: quella decisiva per la storia umana del Cristo e per la storia della salvezza. Tutto il racconto evangelico lucano è come una lunga preparazione agli avvenimenti di quegli ultimi giorni, che Gesù trascorre in Gerusalemme. Luca, come sempre, si dimostra narratore efficace e delicato, attento al particolare e capace di far intravedere al lettore i sentimenti e i movimenti interiori dei suoi personaggi principali, soprattutto di Gesù. Il terribile e ingiusto dolore che egli subisce è filtrato attraverso il suo inalterabile atteggiamento di misericordia verso tutti gli uomini, anche se sono i suoi persecutori e uccisori; alcuni di loro stessi rimangono toccati da questo suo modo di affrontare la sofferenza e la morte, tanto da mostrare segni di fede in lui: lo strazio della passione è addolcito dalla potenza dell’amore divina di Gesù. L’evangelista fa intendere ai suoi lettori in qual modo interpretare la terribile e scandalosa morte del Cristo, al quale hanno affidato la propria vita: Egli compie un passaggio doloroso e difficile da capire, ma “necessario” nell’economia della salvezza (9, 22; 13, 33; 17, 35; 22, 37) per portare a buon successo (“compimento”) il suo itinerario verso la gloria (cfr 24, 26; 17, 25). Tale itinerario di Gesù è paradigma di quello che ogni suo discepolo deve compiere (Att.14,22).

Una divisione del testo per aiutare la lettura e la meditazione.
Il racconto dell’ultima cena: 22, 14 - 38;
La preghiera di Gesù nell’orto del Getsemani:  22, 39 - 46;
L’arresto e il processo ebraico: da 22, 47 - 71
Il processo civile davanti a Pilato ed Erode:  23, 1 - 25
La condanna, la crocifissione e la morte:  23, 26 - 49
Gli avvenimenti successivi alla morte:  23, 50 – 56
Lc 22, 14 -38: Il racconto dell’ultima cena
L'odierno testo liturgico della passione inizia con la narrazione della istituzione eucarística (22,14-20) alla quale segue il cosiddetto discorso di addio” (22,21-38). Le parole introduttive indicano manifestamente che il terzo evangelista pone in stretta relazione il racconto dell'istituzione dell'eucaristia (avvenuta durante la celebrazione della cena pasquale giudaica) con quello della passione. Egli, infatti, riferisce queste pa­role di Gesù assai significative: ”Ho desiderato ardente­mente mangiare questa Pasqua con voi prima della mia passione” (22,15). I1 Salvatore ha un vivo desiderio, di celebrare quest’ultima Pasqua della sua vita non tan­to perché come ebreo osservante della legge, vuole adempiere il rito della manducazione dell'agnello pasquale, quanto perché, al termine di queste celebrazio­ne, egli intende istituire l'eucaristia, sacrificio e sacramento di vita, che lascerà alla chiesa, come suo ultimo e supremo dono. Inoltre, Luca ci offre una scintilla di luce sulla dimensione interiore di Gesù, mentre si appresta a patire e morire: ciò che lo spinge è, come sempre per lui, la scelta radicale di adeguarsi alla volontà del Padre (cfr 2,49), ma s’intravede in queste parole anche un umanissimo desiderio di fraternità , di condivisione e di amicizia.

Lc 22,39-46: La preghiera di Gesù nell’orto del Getsemani
 Luca, nei confronti degli altri evangelisti, maggior risalto sia all'esortazione alla preghiera che Gesù rivolge agli apostoli, sia all’tensità della preghiera del Salvatore durante la sua "agonia” nell'orto del monte degli Uliví. Per ben due volte egli dice agli apostoli: "Pregate per non entrare in tentazione” (22,20.46); inoltre l'evangelista osserva che Gesù, "in preda all'angoscia, pregava più íntensamente” (22,44). Riportando per due volte le parole di Gesù: "Pregate per non entrare in tentazione” (22,40.46), l'evangelista Luca mostra che la preghiera è l'atto non di un momento, sia pure difficile, ma dell'intero arco dell'esistenza cristiana, perché questa è sempre tempo di tentazione. Quindi Gesù non parla di «tentazioní» ma di «tentazione», espressione sintetica che designa tutte le prove, tribolazioní e persecuzioni, alle quali deve far fronte il discepolo di Gesù (cf. Lc 8,13).

Lc 22, 47 – 71: L’arresto e il processo ebraico:
vv. 47-53,  con l’arresto, inizia la vera e propria passione di Gesù. Questo racconto di passaggio, presenta gli avvenimenti seguenti come “l’ora delle tenebre” (v. 53) e mostra Gesù come colui che vince e vincerà sulla violenza mediante la pazienza e la capacità di amare anche i propri persecutori (v. 51); spiccano, perciò, le parole tristi, ma amorevoli, che egli rivolge a Giuda: "Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo” (v.48)
vv. 54-71, Il processo giudaico non subisce evoluzioni nel corso della notte. Di Gesù prigioniero non viene riferito alcunché, fino al mattino. Quest’assenza di notizie circa quanto avviene a Gesù subito dopo l’arresto e fino all’inizio del processo, è tipico di Luca.
vv.60-62: Pietro disse: "O uomo, non so quello che dici"… Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto… E, uscito, pianse amaramente: l’incrocio dei due sguardi, avvenuto chissà come nell’agitazione di quella notte interminabile, segna la presa di coscienza di Pietro: nonostante le sue audaci dichiarazioni di fedeltà, si è realizzato quanto Gesù gli aveva detto poco prima. In quello sguardo, Pietro sperimenta in prima persona la misericordia del Signore di cui aveva sentito parlare Gesù: non nasconde la realtà del peccato, ma la guarisce riportando l’uomo alla piena coscienza della propria realtà e dell’amore personale di Dio per Lui.
vv.70-71: “Tu dunque sei il Figlio di Dio?… Lo dite voi stessi: io lo sono… Che bisogno abbiamo ancora di testimonianza? L'abbiamo udito noi stessi dalla sua bocca”: il processo giudaico inizia ufficialmente con le prime luci del giorno (v. 66) ed è centrato sulla ricerca delle prove (quelle vere, in Luca, ma cfr Mc 14,55-59) in base alle quali condannerà  a morte Gesù. Secondo Luca, quindi, i capi giudei non sono ricorsi a false testimonianze, ma pur nella loro feroce avversione verso Gesù, si sono comportati con una certa correttezza giuridica verso di Lui. Gesù, rispondendo positivamente alla domanda “Sei il figlio di Dio”, si mostra pienamente cosciente della propria dignità divina. In forza di essa, la sua sofferenza, la sua morte e la sua resurrezione sono testimonianza eloquente del Padre e della sua volontà benefica verso l’umanità. In questo modo, però, egli “firma” la propria condanna a morte: è un bestemmiatore che profana il Nome e la realtà di Yhwh, perché se ne dichiara esplicitamente “figlio”.
              Lc 23, 1 – 25: Il processo civile davanti a Pilato ed Erode: 
vv. 3-5, “Sei tu il re dei Giudei?… Tu lo dici… Costui solleva il popolo, insegnando”: siamo al passaggio dal processo giudaico a quello romano: i capi ebrei consegnano il condannato al governatore perché esegua la loro condanna e, per offrirgli una motivazione a lui accettabile, “addomesticano” i moventi della loro condanna, mostrandoli sotto un aspetto politico. Gesù, perciò, viene presentato come sobillatore del popolo e usurpatore del titolo regale d’Israele (che ormai era divenuto quasi soltanto un ricordo o un’onorificenza). Lo strumento mediante il quale Gesù avrebbe preparato il suo reato, guarda caso, è la sua predicazione: quella parola di pace e di misericordia che aveva sparso a piene mani, viene ora usata contro di lui!  Gesù conferma l’accusa, ma certamente la sua regalità non è certo quella di cui veniva accusato di cercare, bensì uno dei riflessi della sua natura divina. Questo, però, né Pilato né gli altri sono in grado di capirlo.

vv. 6-12, Lo mandò da Erode: Pilato, avendo forse intuito che si cercava di coinvolgerlo in un “gioco sporco”, tenta probabilmente di disfarsi del prigioniero, adducendo il rispetto della giurisdizione: Gesù appartiene a un distretto che non ricade, in quel momento storico, sotto la diretta responsabilità dei Romani, ma dipende da Erode Antipa. Questi è presentato dai vangeli come un personaggio decisamente ambiguo: ammira ed è avverso a Giovanni battista, a causa dei rimproveri del profeta contro la sua situazione matrimoniale irregolare e quasi incestuosa, infine lo arresta e poi lo fa uccidere per non fare una cattiva figura con i suoi ospiti (3,19-20; Mc 6,17-29). Poi cerca di conoscere Gesù per pura curiosità, avendone conosciuta la fama di operatore di miracoli, imbastisce un processo contro di lui (v. 10), lo interroga di persona, ma poi dinanzi al suo ostinato silenzio (v. 9), lo abbandona agli scherni dei soldati, com’era avvenuto al termine del processo religioso (22,63-65) e come avverrà quando Gesù verrà crocifisso (vv35-38). Finisce col rimandarlo a Pilato.

vv.13-25,  “Mi avete portato quest'uomo come sobillatore del popolo; …non ho trovato in lui nessuna colpa di quelle di cui lo accusate”: come aveva anticipato nel primo incontro con Gesù (v. 4) e come ripeterà in seguito (v. 22), Pilato dichiara di ritenerlo innocente. Cerca di convincere i capi e il popolo a lasciare andare Gesù, ma essi hanno ormai deciso la sua morte (vv. 18.21.23) e insistono che sia condannato a morte.
Nel racconto di Luca, Pilato, quale rappresentante dell’autorità romana, appare non tanto come un giudice che decide autonomamente in base a fatti accertati, quanto invece come un testimone dell’innocenza di Gesù. Tale insistenza sull’innocenza del Salvatore prepara e trova il suo suggello nella dichiarazione del centurione romano, subito dopo la morte di Gesù in croce, quando dice: “veramente quest’uomo era giusto” (Lc 23,47).

La condanna, la crocifissione e la morte:  23, 26 - 49
 Nel cammino di Gesù, carico della cro­ce, verso il Calvario, soltanto Luca narra il suo incontro con le donne di Gerusalemme, nel quale egli pronunzia un annunzio profetico sulla rovina della città. Il Mae­stro si esprime con il linguaggio dei profeti, per questo motivo la colorazione delle sue parole e le immagini richiamate sono molto drammatiche. Luca, che scrive dopo la caduta di Gerusalemme (70 d.C.), riportando questa profezia di Gesù, fa teologia della storia: infatti lascia capire alle donne di quella città come gli ostinati rifiuti religiosi siano la causa di rovina.
Nel racconto della crocifissione e morte di Gesù, Luca ricorda tre espressioni del Salvatore che non tro­vano riscontro negli altri evangelisti e che rivestono un particolare valore ed interesse:
 La parola di perdono per i crocifissori: Gesù, sulla croce, rivolge a Dio questa preghiera per i suoi crocifissori: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (23,34). Per Luca queste parole di Gesù hanno un valore fondamentale: La preghiera di Gesù morente per i suoi crocifissori rientra nell'istanza teologica di Luca circa il perdono dei nemici; il terzo evangelista, infatti, ha riportato vari insegnamenti di Gesù al riguardo, come ad esempio “Benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano” (Le 6,28; cf. 6,35). Il Salvatore con la sua preghiera di perdono per i suoi crocifissori si fa norma ed esempio vivente di quanto aveva insegnato ai discepoli. Inoltre il tema dell'«ignoranza» degli ebrei in riferimento alla crocifissione di Gesù, “non sanno quello che fauno” (23,34), è un tema che Luca pone in risalto più volte nei discorsi degli Atti.
 La promessa del paradiso al ladrone pentito: Al buon ladrone Gesù morente in croce, rivolge  queste parole: "In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso (23,43). II Salvatore non soltanto promette il «p aradiso» al "malfattore” «Matteo lo qualifica “ladro”, rapinatore”, ( 27,44)» che si riconosce colpevole e si pente, ma glielo assicura per subito dopo la morte. Nel tardo giudaismo, oltre all'idea che bisognava attendere il giudizio finale per risorgere da morte e ricevere la ricompensa per il bene  opereto in vita, c'era anche quella di un passaggio immediato dopo la morte ad uno stato di premio o di punizione, come appare dalla parabola  del povero Lazzaro e del ricco Epulone (Lc 16,22-26).  Si ricollega a questa idea e quindi assicura al buon ladrone il paradiso.
 La preghiera di Gesù morente: La morte in croce del Salvatore è cosi narrata da Luca: "Gesù, gridando a gran voce, disse: "Padre, nelle tue mani consegno i1 mio spirito" (Sal 31,6). Detto questo spirò (23,46). Secondo l'evangelista, la preghiera di  Gesù morente non manifesta soltanto il suo abbandono fiducioso al momento della morte, ma anche la sua piena accettazione e conformazione al piano di salvezza voluto dal Padre; in tal modo Gesù muore come il perfetto giusto che si rimette nelle mani del Padre. Luca, l'evangelista della preghiera, evidenzia che Gesù muore con la preghiera sulle labbra.

Lc 23,50-56: Gli avvenimenti successivi alla morte
vv. 47-48: Visto ciò che era accaduto, il centurione glorificava Dio: "Veramente quest'uomo era giusto". Anche tutte le folle …, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornavano percuotendosi il petto: l’efficacia salvifica del sacrificio di Gesù agisce quasi immediatamente, con la sola evidenza dei fatti avvenuti: pagani (come il centurione che ha comandato la squadra incaricata dell’esecuzione) e Giudei (la gente) iniziano a cambiare. Il centurione “glorifica Dio” e sembra essere a un passo dal diventare un credente cristiano. Le folle giudee, forse senza accorgersene, si allontanano compiendo gesti di pentimento come Gesù ha chiesto alle donne di Gerusalemme (v.38)
vv. 23,53: Lo calò dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo e lo depose in una tomba scavata nella roccia”: Gesù ha davvero subito il supplizio. È davvero morto, come tanti altri uomini prima e dopo di lui, sulla croce, in un comune corpo di carne. Questo evento, senza il quale non vi sarebbe salvezza né vita eterna per alcun uomo, è verificato dal fatto che è necessario seppellirlo, tant’è vero che Luca si dilunga in alcuni particolari riguardanti il veloce rito di sepoltura realizzato da Giuseppe (vv. 52-54).
Il vangelo di questa “domenica di Passione” si conclude qui, omettendo il racconto della scoperta del sepolcro vuoto (24,1-12) e facendoci assaporare il gusto dolce e amaro del sacrificio dell’Agnello di Dio. Veniamo lasciati in un’atmosfera dolente e sospesa e vi restiamo immersi, pur conoscendo l’esito finale del racconto evangelico. Questa terribile morte del giovane Rabbi di Nazareth, non perde significato nella sua resurrezione, ma acquista un valore del tutto nuovo e inatteso, che non prescinde dalla sua dimensione di uccisione sacrificale liberamente accettata per uno scopo “eccessivamente” alto rispetto alle nostre capacità di umana comprensione: è mistero allo stato puro.
Orazione finale:
Dio onnipotente ed eterno, che hai dato come modello agli uomini il Cristo tuo Figlio, nostro Salvatore, fatto uomo e umiliato fino alla morte di croce, fa’ che abbiamo sempre presente il grande insegnamento della sua passione, per partecipare alla gloria della risurrezione. Per Cristo, nostro Signore. Amen.

giovedì 11 marzo 2010

LECTIO DIVINA, 4ª Domenica di Quaresima Anno C


Orazione iniziale
Vieni, o Spirito creatore, a svelarci il grande mistero di Dio Padre e del Figlio uniti in un solo Amore. Facci vedere il gran giorno di Dio splendente di santa luce: nasce nel sangue di Cristo l’aurora di un mondo nuovo. Torna alla casa il prodigo, splende la luce al cieco; il buon ladrone graziato dissolve l’antica paura. Morendo sopra il patibolo Cristo sconfigge la morte; la morte dona la vita, l’amore vince il timore, la colpa cerca il perdono. Amen
Prima lettura Gs  5, 9a-12
Il capitolo 5 vv. 1-9, descrivono l’arrivo nella terra promessa e la circoncisione degli Israeliti e i vv. 10-15 narrano la celebrazione della Pasqua. Dopo aver attraversato il Giordano, Giosuè si preoccupa di rinnovare nel popolo il segno esterno dell’alleanza, dell’appartenenza del popolo eletto al suo Dio (Gn 17,10-14) e la condizione importante per consumare la Pasqua (Es 12,44-49). Quindi “infamia d’Egitto” (v.9) può essere un’allusione al fatto che l’epoca dell’Egitto e delle sue conseguenze è definitivamente tramontata. La circoncisione e la Pasqua di Galgala  segnano un nuovo inizio, nella libertà della terra promessa. Dio, quindi, ha mantenuto le sue promesse, facendo entrare il suo popolo nella terra che gli aveva promesso e dandogli come cibo, i frutti di questa terra; di conseguenza il popolo, ormai insediato nella terra di Canaan: “dove scorre latte e miele”, non aveva più bisogno della manna che lo aveva nutrito durante i quarant’anni del suo peregrinare nel deserto (vv.11-12).
La lettura cristiana dell’AT ha visto tale evento storico come “promessa” di qualcosa di più alto, più spirituale, più universale; l’ingresso dei popoli attraverso il battesimo nella chiesa, comunità dei redenti da Cristo, terra benedetta dove essi possono godere frutti dello Spirito. Andando oltre, in prospettiva escatologica, nel possesso e nel godimento della “terra promessa” e nella celebrazione della Pasqua in essa, la lettura cristiana ha visto e vede tuttora, la figura del compimento pieno e definitivo della salvezza nel regno eterno di Dio, quale vera patria di libertà promessa da Dio all’umanità, che, nella fede, sta compiendo il suo esodo attraverso il deserto di questo mondo.
Seconda lettura: 2Cor 5,17-21
Il testo pone in rilievo il messaggio della riconciliazione con una calda e vibrata esortazione: “lasciatevi riconciliare con Dio” (v.20). Per comprendere come Dio attui questo piano di riconciliazione, Paolo si esprime con un paradosso: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio” (v.21). Il senso di questa espressione, teologicamente forte e ardita, è che Dio, per così dire, ha considerato Gesù come un peccatore e lo ha come rigettato riversando su di lui la propria ira, infatti dice Paolo ai Galati:  “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi” (Gal 3,13).
Per la legge della solidarietà, Cristo, unendosi alla natura umana, in un certo qual modo si è identificato con il peccato che gli era estraneo.
Cristo, trattato da Dio come peccatore, ha consentito all’uomo di diventare “giustizia di Dio”, cioè di essere giustificato, e quindi essere accolto per grazia quale partner della sua alleanza. La giustizia di Dio che Cristo comunica agli uomini, instaura tra essi e Dio un rapporto di figliolanza e di amore analogo a quello che intercorre tra il Padre e Gesù. É necessario dunque che l’uomo accetti la riconciliazione che Dio gli offre.
Terza lettura; Lc. 15, 1-3.11-32
Il contesto
Il c.15 di Luca cade al centro dell’intera sezione del viaggio di Gesù verso Gerusalemme (9,51 -19,28). Esso contiene tre parabole sulla misericordia e sulla gioia: la pecorella smarrita (vv4-7), la dramma perduta (vv8-10) e il figlio prodigo, ovvero il Padre buono e misericordioso (vv.11-32). Luca è l’evangelista che ama sottolineare la misericordia del Maestro per i peccatori e raccontare scene di perdono (Lc 7, 36-50; 23, 39-43). Nel vangelo di Luca la misericordia di Dio si manifesta in Gesù Cristo. Il brano è comunemente conosciuta come la parabola del figlio prodigo, ma questo titolo non è centrato perché tiene conto solo di uno dei tre personaggi trascura il fratello maggiore al quale è dedicata tutta la seconda parte del racconto e, soprattutto, ignora il vero protagonista, il padre. E’ più esatto quindi parlare della “Parabola del padre misericordioso”.
Spiegazione del testo:
vv.1-3, è l’introduzione di tutte le tre parabole e ha come personaggi principali i pubblicani e i peccatori che si avvicinano a Gesù per ascoltarlo; i farisei e gli scribi che mormoravano. Riflettendo bene, già da quest’introduzione si può capire a chi e per quale ragione Gesù ha raccontato questa parabola. Non è tanto ai peccatori che egli si rivolge, ma ai giusti: “Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: Costui riceve i peccatori e mangia con loro. Allora egli disse loro questa parabola”. Loro sono i farisei e gli scribi, gli impeccabili che stanno correndo un grosso rischio spirituale. Sono loro che sono in pericolo perché hanno falsato completamente il rapporto con Dio, non hanno capito che egli ama tutti gratuitamente e davanti a lui non si possono avanzare meriti.
vv. 11-20a Il figlio minore
Un giorno il figlio più giovane di un ricco proprietario terriero, si presenta al padre e pretende la sua parte di eredità. Il saggio Siracide sconsiglia di aderire a una simile richiesta. Direbbe al padre: “É meglio che i tuoi figli ti preghino che non rivolgerti tu alle loro mani. Solo al momento della morte assegna la tua eredità”  (Sir 33,22.24) . Ma il padre della parabola non oppone alcuna resistenza. Senza dire una parola, divide le sue sostanze tra i suoi due figli, in conformità con ciò che stabilisce la legge. Questo comportamento del padre indica il rispetto di Dio nei confronti delle scelte dell’uomo. Egli esorta, educa, consiglia, accompagna, ma lascia sempre la libertà, anche di sbagliare.
Perché il figlio minore decide di abbandonare in fretta la famiglia?
Sembra che egli veda nel padre una specie di un dominatore che impone la sua volontà e non permette di fare quello che si vuole. Gli anni della giovinezza sono pochi, passano come un soffio e si corre il pericolo di perdere le migliori occasioni e il tempo più prezioso per godersi la vita. Tuttavia è forse ingiusto pensare che le colpe siano solo sue. Tra poco conosceremo suo fratello e intuiremo subito che tipo è, come la pensa, come ragiona, come è orgoglioso della sua perfezione, della sua integrità morale, come è intollerante con chi non condivide le sue convinzioni, il suo impegno, il ritmo frenetico del suo lavoro e ci renderemo conto che vivere accanto a un tipo del genere, non è né facile né gratificante.
La meta del giovane è “un paese lontano”.
Rompe con la sua famiglia, con il suo popolo, con le tradizioni religiose della sua terra e va a stabilirsi fra i pagani, allevatori di porci, gli animali impuri per eccellenza  (Lv 11,7) . É l’immagine dell’allontanamento da Dio, del rifiuto di tutti i principi morali, della scelta di una vita dissoluta e priva di inibizioni.
Lontano dalla casa del Padre però, non ci sono la gioia e la pace. La ricerca dei piaceri, la droga, i falsi amici, le deviazioni sessuali finiscono per nauseare. Le avventure non saziano; l’uomo ha bisogno di un equilibrio interiore, altrimenti si sente “morire di fame”. La scena del ragazzo costretto a mettersi a servizio di un pagano e a custodire i suoi porci, rappresenta, in modo molto efficace, la condizione disperata e la degradazione cui giunge chi si allontana da Dio. Dicevano i rabbini: “É maledetto l’uomo che alleva porci”.
Rientrare in se stessa e ascoltare profondamenti
L’esperienza della delusione è provvidenziale, fa cadere in se stessi. Dicevano ancora i rabbini: “Quando gli israeliti sono costretti a mangiare carrube, si convertono”. In queste condizioni, il giovane rientra in se stesso e comincia a riflettere sulla sua situazione e su ciò che ha perso andando via dalla casa di suo padre. Interessante notare l’uso del verbo “ascoltare”, già rilevato all’inizio nell’atteggiamento dei pubblicani e dei peccatori che si avvicinavano a Gesù per ascoltarlo, richiama anche la scena di Maria sorella di Marta, “la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola” (Lc 10, 39); oppure alle folle che “erano venuti per ascoltarlo ed esser guariti dalle loro malattie” (Lc 6, 18). Gesù riconosce i suoi parenti, non dal legame sanguineo, ma da questo atteggiamento di ascolto: “Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8, 21). Luca sembra dare importanza a questo atteggiamento. Maria, la Madre di Gesù, è lodata per questo atteggiamento di ascolto contemplativo, lei che “serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2, 19, 51). Elisabetta la proclama beata perché “ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore” (Lc 1, 45), rivelate nella scena dell’annunciazione (Lc 1, 26-38).
Il ritorno al padre
Dopo questo ascolto profondo,  il giovane avverte il dover di dire a se stesso: è bene che io torni da mio padre e gli comunichi i risultati della mia esperienza; mostri cosa è accaduto in me in questo periodo; è bene che io riavvii un rapporto interpersonale sereno e più maturo. La decisione è presa, ispirata a sicurezza e fiducia, il giovane ha già cambiato il suo modo di vedere il padre.
vv. 20b-24: L’accoglienza piena di amore e di gioia da parte del padre
Quando era ancora lontano il padre, lo vide, commosso, scese e gli corse incontro, gli si gettò al collo, lo baciò.  Il padre non dice una parola; la sua reazione di fronte al figlio che ritorna, è descritta con cinque verbi che da soli bastano a far considerare questo versetto come uno dei più belli di tutta la Bibbia.
- Lo vide da lontano. Il padre vede da lontano, dalla torre di guardia da dove da sempre sta scrutando l’orizzonte, in attesa del suo ritorno.
- Si sentì sconvolgere le viscere. Il verbo greco splagknizomai indica una commozione così intensa e profonda da essere percepita anche fisicamente nelle “viscere”. É il sentimento che una madre prova nei confronti del figlio che porta in grembo. Non si può immaginare un’emozione più intima e più forte. Nel NT questo verbo compare solo nei Vangeli  (dodici volte)  ed è sempre riferito a Dio o a Gesù, come a dire che soltanto Dio è capace di provare questa forma di amore.
- Si mise a correre. Un gesto istintivo, ma imprudente per un vecchio e poco dignitoso per una persona di rango. A questo padre l’emozione ha chiaramente fatto perdere il controllo delle reazioni. Agisce ascoltando solo il cuore.
- Gli si gettò al collo. Letteralmente: gli cadde sul collo che è molto di più che abbracciare. Troviamo questa espressione solo un’altra volta nel NT. É usata per esprimere i sentimenti degli anziani di Efeso quando salutano Paolo, sapendo che non avrebbero più rivisto il suo volto: “Scoppiarono in un gran pianto e gettandosi al collo di Paolo lo baciavano e lo ribaciavano”  (At 20,37) .
- Non smetteva più di baciarlo. Non è il tradizionale bacio di saluto dato all’ospite, ma è il segno dell’accoglienza, è l’espressione della gioia e del perdono. Il padre non permette al figlio di inginocchiarsi.
Di fronte alla reazione del padre, il figlio prodigo – prende la parola e “recita” la sua confessione. Non riesce a concluderla. Quando sta per aggiungere: “trattami come uno dei tuoi garzoni”, il padre lo interrompe e comincia a dare ordini  (vv. 21-22) . Le sue disposizioni hanno tutte un significato e un richiamo simbolico.
- Al figlio  deve essere consegnata una veste lunga, la migliore, quella usata per le feste, per gli ospiti di riguardo, Dio reintegra nella sua famiglia, con tutti gli onori, colui che ritorna.
- L’anello al dito. Non è l’anello coniugale, ma quello con il sigillo. Al giovane viene ridata l’autorità sui servi e il potere sui beni del padre. Stranamente è come se nulla fosse stato sperperato. Può disporre ancora di tutta l’eredità che sembra  (ed è)  inesauribile.
- I sandali ai piedi sono il segno dell’uomo libero. Gli schiavi andavano scalzi.
Nella sua casa Dio non vuole servi, ma gente libera  (Gv 15,15) . Per questo, si notino i dettagli,  il padre interrompe la confessione del figlio prima che dichiari la sua disponibilità a trasformarsi in salariato, poi ordina che gli sia consegnata la veste lunga, non quella corta, usata dai servitori nei giorni feriali. Infine i sandali: non ci si presenta davanti a Dio a piedi nudi, come i garzoni che, tremanti, si aspettano di ricevere ordini o rimproveri. Egli non è un padrone, vuole essere amato, non temuto o servito.
Una festa conclude il cammino verso la casa del Padre.
- L’anello al dito. Non è l’anello coniugale, ma quello con il sigillo. Al giovane viene ridata l’autorità sui servi e il potere sui beni del padre. Stranamente è come se nulla fosse stato sperperato. Può disporre ancora di tutta l’eredità che sembra  (ed è)  inesauribile.
- I sandali ai piedi sono il segno dell’uomo libero. Gli schiavi andavano scalzi.
Nella sua casa Dio non vuole servi, ma gente libera  (Gv 15,15) . Per questo, si notino i dettagli,  il padre interrompe la confessione del figlio prima che dichiari la sua disponibilità a trasformarsi in salariato, poi ordina che gli sia consegnata la veste lunga, non quella corta, usata dai servitori nei giorni feriali. Infine i sandali: non ci si presenta davanti a Dio a piedi nudi, come i garzoni che, tremanti, si aspettano di ricevere ordini o rimproveri. Egli non è un padrone, vuole essere amato, non temuto o servito.
Una festa conclude il cammino verso la casa del Padre.
Nel giudaismo si insegnava che Dio concedeva il suo perdono a chi era sinceramente pentito e manifestava la sua volontà di convertirsi mediante digiuni, penitenze, vestiti laceri, prostrazioni. La prima parte della parabola si conclude invece in modo scandaloso e i farisei che la stanno ascoltando, cominciano a capire. Il Dio annunciato da Gesù è ben diverso da come lo immaginavano: organizza un banchetto per chi non lo merita, introduce nella sua festa i peccatori senza verificare se sono pentiti, se sono sinceramente decisi a cambiare vita. Li abbraccia senza porre loro alcuna domanda. Nel suo comportamento, Dio rivela i suoi sentimenti: egli non ama solo i giusti ed i peccatori pentiti; vuole bene a tutti, sempre e senza condizioni. Egli chiede a noi di “amare anche chi ci fa del male”; non ci dice di amare i nemici che si pentono e ci chiedono scusa, ma di fare loro del bene anche se continuano a perseguitarci.
vv. 25 -28a  il figlio maggiore
Arriva dai campi, sfinito, forse anche teso e preoccupato, è sempre lui che deve risolvere tutti i problemi  etrova la sorpresa: una festa, musiche, danze… Non è stato né invitato, né avvisato. Chiama uno dei servi e si informa su ciò che sta accadendo. É così turbato e sconcertato che, anche dopo i reiterati chiarimenti del servo, rimane incredulo. Si indigna e la sua ira è più che giustificata: è la reazione logica dell’uomo fedele e irreprensibile che si trova di fronte ad una palese ingiustizia.
 Il padre esce per pregare il figlio maggiore
Il padre esce di nuovo in casa e va a supplicare il figlio maggiore chiedendogli di entrare; ed egli comincia ad elencare i suoi meriti: io non ho mai trasgredito nessun comando, ho sempre servito fedelmente… É il ritratto perfetto del fariseo osservante e scrupoloso che nel tempio può dire al Signore: “Io non sono come gli altri uomini, ladri ingiusti, adulteri, digiuno due volte la settimana e pago le decime”  (Lc 18,11-12) .Alla misericordia del padre che si commuove (Lc 15, 20), si contrappone l’atteggiamento severo del figlio maggiore, che non accetta suo fratello come tale, ma nel dialogo con il padre, lo definisce: “questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute” (Lc 15, 30). Qui si intravede l’atteggiamento degli scribi e dei farisei che “mormoravano: “Costui riceve i peccatori e mangia con loro”. Loro non si mescolano con i “peccatori” considerati immondi, ma si distanziano da loro. L’atteggiamento di Gesù è diverso, è scandaloso ai loro occhi. La mormorazione degli scribi e dei farisei impedisce l’ascolto della Parola e quindi la scoperta del vero volto di Dio.
Nella parabola il figlio minore usa cinque volte la parola “padre” perché per lui il padre è davvero “padre”, sa di non poter avanzare pretese nei suoi confronti, è convinto di avere ricevuto tutto gratuitamente, di non meritare nulla. Sulla bocca del figlio maggiore invece non compare mai la parola “padre”. Egli mostra di non essere un figlio, ma un servo; il padre per lui è solo un padrone. La conseguenza di questo rapporto scorretto con il padre, è il rifiuto del fratello che viene chiamato: “questo tuo figlio”  (v. 30) . Subito però il padre, con molta finezza, lo corregge: “questo tuo fratello...era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato”. Cioè era disorientato e bloccato, ora è in piena crescita, equilibrata ed armonica; si era perduto, ora è qui.  Bisogna fare festa. 
Per la comunità ecclesiale postpasquale, quel padre è Dio, quella casa così vivace e popolata, forse è la chiesa, quei due fratelli impersonano una problematica umana ed ecclesiale sempre viva e attuale.
Dall’esperienza carmelitana: Santa Teresa di Lisieux
Alla sera di questa vita, comparirò davanti a voi a mani vuote, perché non vi chiedo, Signore, di  contare le mie opere. Tutte le nostre giustizie hanno macchie ai vostri occhi. Voglio perciò  rivestirmi della vostra giustizia…, mi offro come vittima d'olocausto al vostro amore  misericordioso, supplicandovi di consumarmi senza posa, lasciando traboccare nella mia anima i  frutti d'infinita tenerezza che sono racchiusi in voi, e così possa diventare martire del vostro amore, o mio Dio!... Che questo martirio, dopo avermi preparata a comparire davanti a voi, mi faccia infine morire e la  mia anima si slanci senza alcuna sosta verso l'eterno abbraccio del vostro amore  misericordioso...” (Atto di Offerta all’amore misericordioso di Dio)
Orazione finale:
O Dio, che dai la ricompensa ai giusti e non rifiuti il perdono ai peccatori pentiti, ascolta la nostra supplica: l’umile confessione delle nostre colpe ci ottenga la tua misericordia.

giovedì 4 marzo 2010

LECTIO DIVINA 3a Dom.Quaresima


Preghiera iniziale:
Signore Gesù, invia il tuo Spirito, perché ci aiuti a leggere la Scrittura con lo stesso sguardo con il quale l'hai letta Tu per i discepoli sulla strada di Emmaus. Con la luce della Parola, scritta nella Bibbia, Tu li aiutasti a scoprire la presenza di Dio negli avvenimenti sconvolgenti della tua condanna e della tua morte. Così, la croce che sembrava essere la fine di ogni speranza, è apparsa loro come sorgente di vita e di risurrezione. Crea in noi il silenzio per ascoltare la tua voce nella creazione e nella Scrittura, negli avvenimenti e nelle persone, soprattutto nei poveri e sofferenti. La tua Parola ci orienti, affinché anche noi, come i due discepoli di Emmaus, possiamo sperimentare la forza della tua risurrezione e testimoniare agli altri che Tu sei vivo in mezzo a noi come fonte di fraternità, di giustizia e di pace. Questo noi chiediamo a Te, Gesù, figlio di Maria, che ci hai rivelato il Padre e inviato lo Spirito. Amen.
Prima lettura: Es 3,1-8°.13-15
Il brano è diviso in due parti: nella prima parte,  vv 1-8a troviamo Mosè nel deserto, l’apparizione di Dio, la vocazione e la missione di Mosè; nella seconda parte, vv 13-15 la rivelazione del nome di Dio. 
Prima parte
v.1. Mosè è “pastore” del gregge di Ietro suo suocero. Egli arriva al monte di Dio, “Oreb” (= arido, secco), verosimilmente luogo di culto già per i nomadi del deserto. “Oreb” è il nome che le tradizioni del regno del Nord assegnano al Sinai (Es 17,6; 1Re 19,8, ecc)
v.2. “l’angelo (messaggero) del Signore” è espressione biblica classica per indicare lo stesso JHWH nelle sue svariate forme di apparizione e manifestazione (cfr. Gn 16,7-14; 21,14-21, Gs 5,13-16; Gdc 6,11-24).
Il “fuoco” è una delle immagini più comuni nella Bibbia per indicare la presenza di Dio: nel deserto il Signore guidava il suo popolo “con una colonna di fuoco” (Es 13,21), “scendeva nel fuoco” (Es 19,18), “la sua voce parlava dal fuoco” (Dt 4,33).  il fuoco divorante (Es 24,17; Dt 4,24; 9,2), è il “fuoco che viene dal cielo”, il “fuoco di Dio” (cfr 1Re 18,38; 2Re 1, 10-14) e spesso anche nei profeti (cfr Is 10,17; Ez 1,4,14.27).  Anche qui il fuoco indica la voce di Dio che rivela al suo servo la missione difficile e rischiosa cui è chiamato.
“Il Roveto in ebraico s’neh, è un termine che indica un arbusto spinoso, alto un metro, ancora oggi presente in Palestina nei dintorni del Mar morto. Da esso defluiscono oli essenziali che, nelle giornate molto calde, si incendiano. In questo testo l’autore biblico usa l’immagine del roveto ardente che non si consuma, per esprimere bene la “fiamma di Dio” che arde interiormente e non dà tregua a Mosè. E’ la stessa di cui parla Geremia: “Nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (Ger 20,9).
v.5. I sandali completano il simbolismo della scena. Essendo fatti con la pelle di un animale morto, sono impuri e non possono essere introdotti in un luogo santo dove ha accesso solo ciò che richiama la vita (anche oggi devono essere tolti prima di entrare in una moschea). Dicendo che Mosè è stato invitato a togliersi i sandali, l’autore sacro vuole affermare che egli è entrato in contatto con Dio. L’ispirazione che ha avuto non era una sua fantasia, una sua ambizione, ma proveniva dal Signore.
v.6. “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” (cfr Gn 28,13): è la riaffermazione del legame tra la religione patriarcale e la religione del Dio del Sinai, tra i clan del periodo patriarcale e il Dio che libera dall’Egitto per costituirsi un popolo.
v.7. Dio “vede” la miseria (povertà e oppressione, debolezza e umiliazione), “ascolta”,conosce”. L’iniziativa della salvezza è tutta di Dio, tutto parte da Lui.
v.8. Dio “scende”, è intenzionato a discendere in Egitto per sottrarre Israele alla schiavitù (“farlo uscire”) e introdurlo nel paese dove “scorre latte e miele”. In “farlo uscire” si esprime spesso un’azione divina, soprattutto nel senso di “trarre fuori”, “liberare, salvare”.  Israele ha conosciuto il suo Dio anzitutto come liberatore. Solo in seguito ha scoperto che egli è anche padre, madre, sposo, re, pastore, guida, alleato... La lettura racconta come è cominciata questa rivelazione del Signore al suo popolo
Nella solitudine e nel silenzio del deserto, mentre forse rifletteva sulla sorte del suo popolo in Egitto, Mosè è stato illuminato. Dio lo ha introdotto nel suo mondo, gli ha instillato nel cuore i suoi stessi sentimenti, la sua passione per la libertà degli oppressi. Gli ha fatto capire che, per realizzare il suo sogno, aveva bisogno di uno come lui. In questa esperienza spirituale intensa e profonda, Mosè si è reso conto anche delle difficoltà che un’impresa tanto ardua presentava e ha esposto al Signore la sua obiezione: “Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma essi mi diranno: come si chiama? Io, cosa risponderò loro?” (v. 13). Ecco la risposta di Dio nella seconda parte del brano.
Seconda parte
vv. 14-15. “Io sono colui che sono”. Alla base di quest’espressione c’è il verbo hyh che significa “essere all’opera” “essere operante”; quindi il nome vuole dire “egli era, è e sarà sempre operante per”. Perché Dio vuole essere chiamato in un modo così strano? Che significa questo nome che ricorre ben 6.828 volte nella Bibbia? Vuole dire: vi renderete conto chi io sarò; vedrete da ciò che farò chi sono io.
Cosa vedranno gli Israeliti? Non certo un Dio che se ne sta tranquillo in paradiso, impegnato a mantenere in ordine la contabilità dei peccati, che non vuole essere disturbato, che si disinteressa di ciò che accade sulla terra. Il Dio che si rivelerà a Israele sarà un Dio che vive con passione i problemi del suo popolo, che non tollera l’oppressione dei deboli, che interviene per liberare. Lui agisce sovranamente nella storia, è sempre presente ed é pronto a intervenire per noi.                                                                      Anche oggi, Dio non cambia nome. I suoi sentimenti nei confronti di chi soffre, di chi subisce ingiustizia, di chi è sottoposto a qualunque forma di oppressione e di abuso rimangono gli stessi. Non cambia nemmeno il modo con cui egli porta a compimento le sue liberazioni: si serve dei suoi angeli – è così che è chiamato Mosè (Es 23,20.23) – compie le sue opere attraverso coloro che si lasciano educare dalla sua parola, che coltivano nel cuore i suoi sentimenti e i suoi pensieri e che non hanno paura di correre rischi.
Seconda lettura: 1Cor 10,1-6.10-12
La comunità di Corinto è abbastanza buona, tuttavia, come succede ovunque, ci sono anche degli aspetti negativi: dissensi, immoralità, invidie. Alcuni cristiani sono convinti che basti il battesimo per essere sicuri della salvezza. Per correggere questa falsa certezza, Paolo porta l’esempio del popolo d’Israele. Dice: tutti gli israeliti hanno creduto in Mosè e lo hanno seguito; hanno attraversato il mar Rosso, sono stati sotto la nube, hanno mangiato la manna e bevuto l’acqua, fatta scaturire dalla roccia; ma, a causa delle loro infedeltà, nessuno di loro è entrato nella Terra Promessa.
La stessa cosa può accadere ai cristiani. Essi devono tenere presente che i favori di Dio non producono risultati in modo automatico e quasi magico. Non basta aver creduto in Cristo (nuovo Mosè), essere stati battezzati (il passaggio del mar Rosso), aver ricevuto lo Spirito (la protezione della nuvola), essersi cibati dell’Eucaristia (il Pane ed il Vino corrispondono alla manna e all’acqua del deserto). E’ necessaria una vita coerente, altrimenti anch’essi possono perdersi, come è accaduto agli Israeliti nel deserto.
Terza lettura: Lc 13,1-9
Il testo del Vangelo ci presenta due fatti diversi, legati tra di loro: un commento di Gesù riguardo ai fatti del giorno (la cronaca) ed una parabola. Luca 13,1-5: richiesto dalla gente, Gesù commenta i fatti attuali: il massacro dei pellegrini eseguito da Pilato e quello della torre di Sìloe che uccise diciotto persone. Luca 13,6-9: Gesù racconta una parabola, quella del fico che non dava frutti.
Spiegazione del testo                                                                             v. 1: La gente dà a Gesù la notizia del massacro dei Galilei
Come oggi, il popolo commenta i fatti che avvengono e vuole un commento da coloro che possono interferire nell’opinione pubblica. E così che alcune persone giungono vicini a Gesù e raccontano il fatto del massacro di alcuni Galilei, in pellegrinaggio a Gerusalemme per la Pasqua, dove offrirono  i loro sacrifici, come prescriveva la legge mosaica. La Pasqua celebra la liberazione dall’Egitto, è quindi inevitabile che risvegli in ogni Israelita aspirazioni alla libertà e accresca il sentimento di rivalsa contro l’oppressione romana. E’ possibile anche che questi Galilei, abbiano prima scambiato qualche battuta un po’ pesante con le guardie, poi dalle parole siano passati a vie di fatto: qualche spintone e scontro.
Pilato che, durante le grandi feste, è solito trasferirsi da Cesarea a Gerusalemme per assicurare l’ordine e prevenire sommosse, non tollera nemmeno l’accenno alla ribellione: fa intervenire i soldati che, senza alcun rispetto per il luogo santo, massacrano i malcapitati galilei. Un gesto brutale e sacrilego, un oltraggio al Signore, una provocazione nei confronti del popolo che considera il tempio dimora del suo Dio.
vv.2-3: Gesù commenta il massacro e ne trae una lezione per la gente
Interpellato a dare una opinione, Gesù chiede: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte?” La domanda di Gesù rispecchia l’interpretazione popolare comune dell’epoca: sofferenza e morte violenta sono il castigo di Dio per qualche peccato che la persona ha commesso. La reazione di Gesù è categorica: “No vi dico!” E nega l’interpretazione popolare e trasforma il fatto in esame di coscienza: “Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo!”. Gesù non si pronuncia direttamente sul crimine commesso da Pilato. Non vuole lasciarsi coinvolgere in quelle inutili conversazioni in cui ci si limita ad imprecare e a maledire. Egli non è certo insensibile alle sofferenze e alle disgrazie, si commuove fino alle lacrime per amore della sua patria. Tuttavia sa che l’aggressività, lo sdegno, l’ira, l’odio, il desiderio di vendetta non servono a nulla, anzi, sono controproducenti. Questi sentimenti portano solo a gesti sconsiderati che complicano ancora più la situazione.
vv. 4-5: Per rafforzare il suo pensiero Gesù commenta un altro fatto
Gesù stesso prende l’iniziativa di commentare un altro fatto: la morte di diciotto persone schiacciate dalle pietre, dopo il crollo di una torre nelle vicinanze della piscina di Sìloe.  Il commento della gente: “Castigo di Dio!”. Commento di Gesù: “No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. Queste persone – dice Gesù – non sono state punite a causa delle loro colpe: sono morte per una sventura, al loro posto potevano essercene altre. Anche questo avvenimento deve essere letto come un richiamo alla conversione che ci rende pronti alla morte in qualsiasi momento.
Il richiamo di Gesù alla conversione è un invito a cambiare maniera di pensare.
I Giudei coltivano sentimenti di violenza, di vendetta, di rancore contro gli oppressori. Questi non sono i sentimenti di Dio. E’ urgente che rivedano la loro posizione, che rinuncino alla fiducia riposta nell’uso della spada. Gesù non cerca di sfuggire al problema, propone una soluzione diversa. Rifiuta i palliativi. Invita a intervenire alla radice del male. E’ inutile illudersi che possa cambiare qualcosa semplicemente sostituendo coloro che detengono il potere. Se i nuovi arrivati non hanno un cuore nuovo, se non seguono una logica diversa, tutto rimane come prima. Sarebbe come cambiare gli attori di uno spettacolo senza modificare il testo che devono recitare.
Ecco la ragione per cui Gesù non aderisce all’esplosione collettiva di sdegno contro Pilato. Egli invita alla conversione, propone un cambiamento di mentalità. Solo persone divenute diverse, solo persone, dal cuore nuovo, possono costruire un mondo nuovo. Questa è la soluzione definitiva.
Quanto tempo si ha a disposizione per operare questo cambiamento di mentalità? Può essere dilazionato di qualche mese, di qualche anno? A queste domande Gesù risponde nella seconda parte del Vangelo di oggi (vv.6-9) con la parabola del fico.
vv. 6-9: La parabola del fico che non dava frutti
Nella Bibbia si parla spesso di questa pianta che, due volte l’anno, in primavera e in autunno, dà frutti dolcissimi. Nei tempi antichi, era il simbolo della prosperità e della pace (1Re 4,25; Is 36,16). Nel deserto del Sinai gli Israeliti sognavano una terra con abbondanti sorgenti d’acqua, campi di grano e... alberi di fico (Dt 8,8; Nm 20,5). Il padrone della vigna e del fico è Dio. Il fico è il popolo. Gesù è il vignaiolo. Il padrone della vigna si è stancato di cercare frutti nel fico, senza incontrarli. Decide di sradicare l’albero. Così ci sarà posto per una pianta che possa dare frutti. Il popolo scelto non stava dando il frutto che Dio aspettava. Vuole dare la Buona Notizia ai pagani. Gesù, il vignaiolo, chiede di lasciare il fico in vita ancora un poco. Aumenterà i suoi sforzi (zappare intorno, mettere concime) per ottenere il mutamento e la conversione.
Il messaggio della parabola è chiaro: da chi ha ascoltato il messaggio del Vangelo, Dio si attende frutti deliziosi e abbondanti. Non vuole pratiche religiose esteriori, non si accontenta di apparenze, ma cerca opere di amore.
A differenza degli altri evangelisti che parlano di un fico sterile che è fatto seccare all’istante o quasi  (Mc 11,12-24; Mt 21,18-22), Luca, l’evangelista della misericordia, introduce un altro anno di attesa, prima dell’intervento definitivo. Egli presenta un Dio paziente, tollerante con la debolezza umana, comprensivo per la durezza della nostra mente e del nostro cuore.
La parabola è un invito a considerare la Quaresima come un tempo di grazia, come un nuovo “anno prezioso” che viene concesso al fico  (ogni uomo)  per dare frutti.
Preghiera finale
O Dio, che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono, continua a effondere su di noi la tua grazia e concedici il dono della conversione, perché camminiamo verso i beni da te promessi e diventiamo partecipi della felicità eterna. Amen.