venerdì 30 aprile 2010

LECTIO DIVINA: 5ª DOMENICA DI PASQUA ANNO C


Orazione iniziale
Signore Gesù aiutaci a capire il mistero della Chiesa come comunità d’amore. Dandoci il comandamento nuovo dell’amore come costitutivo della chiesa, ci indichi che esso è in cima alla gerarchia dei valori. Quando stavi per dare l’addio ai tuoi discepoli, hai voluto offrire il memoriale del comandamento nuovo, lo statuto nuovo della comunità cristiana. Non è stata una pia esortazione, ma appunto, un comandamento nuovo, che è l’amore. In questa ‘relativa assenza’ siamo invitati a riconoscerti presente nella persona del fratello. In questo periodo della Pasqua, Signore Gesù, tu ci ricordi che il tempo della Chiesa, è il tempo della carità, è il tempo dell’incontro con Te attraverso i fratelli. Sappiamo che alla fine della nostra vita saremo giudicati sull’amore. Aiutaci a incontrarti in ogni fratello e sorella, cogliendo le piccole occasioni di ogni giorno.
Prima lettura Att.14,21-27
Il brano contiene i versetti che concludono il primo viaggio missionario che ha visto Paolo in compagnia di Barnaba, impegnato a fondare le prime comunità cristiane al di fuori del modo strettamente ebraico, nella parte meridionale dell’Asia Minore. L’esperienza “nuova” fatta da Paolo e Barnaba è che “Dio aveva aperto ai pagani la porta della fede” (v.27). I frutti della Pasqua e dello Spirito sulle prime comunità, quasi sorprendono gli stessi apostoli. L’esperienza abbraccia anche “le tribolazioni” (v.22), che segnano inevitabilmente l’itinerario della missione, ma ne costituiscono anche il segreto della fecondità.
Ritroviamo in Atti “tribolazione”, categoria portante dell’Apocalisse. Paolo e Barnaba, passando per Antiochia di Pisidia (At 13,44-52), per Iconio (14,1-7) e per Listra (14,8-20), hanno conosciuto persecuzione, espulsione e lapidazione. Tornano ora sui loro passi, esortano e confortano le comunità evangelizzate di restare saldi nella fede. In questo sommario, Luca vuole evidenziare l’entusiasmo missionario di Paolo e Barnaba nonostante le difficoltà che abbiano incontrato. Ciò che è toccato a Cristo e ai primi evangelizzatori, tocca ora a tutti i credenti. Vale anche per noi la legge generale: “è necessario passare attraverso molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio” (v.22). Annuncio e testimonianza di fede vera e operante, comportano contrasti e persecuzioni per tutti. E’ la Pasqua vissuta a livello personale e comunitario.

Seconda lettura Ap.21,1-5°
Il testo fa parte del penultimo capitolo del libro dell’Apoclisse, l’ultimo libro della Bibbia, che era iniziata con la Genesi, con la creazione del cielo e della terra, dell’uomo e della donna. Qui nell’Apocalisse, al compimento di tutta la storia della salvezza, il mare non c’è più e i cieli e la terra sono totalmente rinnovati. Al centro della terra e del cielo rinnovati, c’è la santa Gerusalemme, la comunità di tutti gli uomini (l’umanità rinnovata) finalmente radunati nell’amore di Dio e capaci di rispondere a tale amore con l’amore  di una sposa fedele.
v.1. “Il cielo e la terra di prima erano scomparsi..”. Le varie immagini di Ap 21 vogliono evocare soltanto la grande crisi che la prima creazione attraversa e attraverserà, prima che Dio con un atto della sua onnipotenza faccia nuova l’antica creazione.
v.2. “la città santa, la nuova Gerusalemme”: la nuova città “discende da cielo, da Dio”, avviene dall’alto (cf Gal 4,26; Fil 3,20; Eb 12,22; 14,44), “il suo architetto e costruttore è Dio (Eb 11,10).
“Pronta come una sposa adorna per il suo sposo”. Il simbolo della sposa per indicare il popolo di Dio, è corrente sia nell’AT che nel NT (cf. Os 2,18.21; Is 54,6; Ez 16, ecc; Mt 22,1ss; Mc 2,19; Gv 3,29; Ef 5,25, ecc). L’alleanza sponsale di Dio con il suo popolo, diventato ormai universale (cf.Ap 7,9-17), viene a compimento. Se il popolo di Israele poteva affermare che Do gli aveva parlato dicendo che egli era il loro Dio e loro erano il suo popolo, ora tale reciproca appartenenza nell’amore è estesa a tutti i popoli.
v.3. “Ecco la dimora di Dio con gli uomini”: tutti i segni della presenza di Dio che la storia della salvezza aveva offerto (la nube, la tenda, il tempio, ecc) scompaiono (cf Ap 21,22), perché la realtà prende il posto del segno.
v.4. “Tergerà ogni lacrima, non ci sarà più la morte”: il Dio con tutti gli uomini libera la creazione da ogni negatività, oggettiva e soggettiva. La morte, con tutto il suo corteggio di mali, è vinta per sempre.
v.5. “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” :
Dio fa nuove tutte le cose. Una simile novità non può provenire che da Dio. Il credente che vive nella “traballante capanna” (Am 9,11) del suo corpo, della sua esistenza e della storia universale, sa bene che la novità vera non è raggiungibile dall’uomo se non come accoglienza del dono di Dio. E’ Dio il “nuovo”, il diverso che si dona, si auto comunica.
Dio fa nuove le cose. Nota bene: Dio non “fa cose nuove”, bensì “fa nuove” tutte le cose. L’accento è su sulla novità, non sulle cose. Dio non cancella la prima creazione per sostituirla con una nuova; rinnova, trasforma la prima creazione, quella di cui facciamo parte e che ci portiamo dentro.
Dio “fa” (al presente) nuove tutte le cose, l’assemblea che ascolta, noi stessi che ascoltiamo dovremo trasalire di gioia dinanzi a questo presente, segno di un rinnovamento escatologico che già si iscrive nella presente vita e nella presente storia. Si tratta, allora, di riconoscere fin d’ora i germi di questa novità e di coltivarli.
Vangelo Gv 13,31-33°.34-35
Contesto
Il brano apre la lunga sezione giovannea dei “discorsi di addio” (Gv 13,31-14,31 e Gv 15-17). L’uscita nella notte di Giuda il traditore (13,30), inaugura per Giovanni l’ “ora delle tenebre”. Da una parte, dimostra Giuda che abbandona definitivamente la sfera della luce e della vita per entrare nelle tenebre e nella morte nelle quali verrà inghiottito; da un’altra parte, è l’ora della passione di Gesù che, nel quarto Vangelo, coincide misteriosamente con “ora della glorificazione” (vv.31-32). Ma questa è anche l’ora della partenza di Gesù, l’ora del distacco (v.33), l’ora delle ultime volontà. Una domina su tutte: il comandamento nuovo dell’amore (vv.34-35).
Spiegazione del testo
vv.31-32: “..Il Figlio è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui…”
Il verbo “glorificare” appare ben cinque volte nei vv.31-32. La “gloria” nel linguaggio biblico è l’irraggiamento stesso della presenza di Dio, lo splendore terribile e ad un tempo affascinante dell’essere di Dio. Per il Vangelo di Giovanni la “gloria” divina è presente nella “carne” del Verbo diventato uomo (Gv 1,14), rivela e salva attraverso i miracoli-segni di Gesù (Gv2,11), esplode nello scandalo del Crocifisso. L’uomo si aspetterebbe sempre una presenza di Dio visibilmente gloriosa, una trasparenza attraverso la quale si possa contemplare direttamente il divino. Il verbo fatto carne e innalzato sulla croce ci obbliga ad una conversione teologica. Dio è presente là dove meno lo aspetteremmo: nella debolezza e infermità dell’esistenza terrena di Gesù, addirittura in maniera privilegiata nella sua passione-morte. Infatti, di fronte al tradimento di un suo discepolo, Gesù dimostra un amore più forte dell’istintiva avversione. Un amore che non giudica, che non conosce limiti, che si estende pure ai nemici. Il momento della morte in croce manifesta la gloria che Gesù ha ricevuto dal Padre e che ora brilla in lui: è la manifestazione massima dell’amore di Gesù e del Padre.
v.33: “Figlioli, mi resta ormai poco tempo per stare con voi…”
 Gesù che va liberamente alla morte, causata dal tradimento di un suo discepolo e accettata per amore, sa che nessuno può accompagnarlo. I suoi non sono ancora capaci di un amore generoso e totale. Infatti tra poco lo abbandoneranno tutti; in 16,32 leggiamo: “Ecco, viene l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto suo e mi lascerete solo…”. Dopo essere stato capace di dimostrare amore anche per il traditore, Gesù formula il comandamento della sua comunità basato sull’ assomiglianza al suo amore senza limiti.
v.34: “vi do un comandamento nuovo: che vi amiate..come io vi ho amato…”
L’aggettivo “nuovo” esprime una novità di natura: il comandamento di Gesù qualitativamente nuovo perché è dono di Dio e di Cristo, è una partecipazione alla loro capacità e al loro modo di amare. Di fatto, Gesù supera il precetto dell’amore contenuto nel Libro del Levitico: “Ama il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18; cfr. Mt 22,3740) dove l’uomo era la misura di questo amore. Gesù dona ai suoi un unico comandamento che è nuovo: la sua qualità è tale che esso sostituisce tutti gli altri. Nell’unico comandamento che Gesù lascia come costitutivo per la comunità dei credenti, egli non chiede nulla né per sé né per Dio, ma solo per gli uomini. Dio ancora una volta viene presentato non come colui che viene servito dagli uomini, ma che si pone al loro servizio offrendo ad essi la sua stessa capacità d’amare: come io ho amato voi. Non l’uomo ma Gesù è la misura/norma di questo amore. Essendo stato preceduto da un gesto di servizio e di accoglienza come la lavanda dei piedi, Gesù fa comprendere che questo amore si esprime attraverso il servizio. Chi non serve, non ama. Il come di questo amore non indica solo la misura (comparazione) di questo amore, ma la motivazione (causa): si è capaci di amare come Gesù perché lui ci ama. L’amore di Cristo, prima ancora di essere norma e modello dell’agape cristiana, ne è sorgente e radice, per cui, se è accolto nella libertà, produce gli effetti dell’amore vicendevole e della comunione fraterna.
v.35 “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni gli altri”
Nella comunità dei credenti (discepoli), segno e germe della comunità escatologica, si rende (o si dovrebbe rendere!) visibile e tangibile la logica dell’amore, la logica del dono totale che è la logica di Dio e del suo regno. Quindi c’è qualcosa di più di un semplice “segno distintivo”; si tratta di rappresentare al vivo di fronte al vecchio mondo, la logica e la vita del “nuovo mondo”, nel quale tutti siamo amati da Dio e da questa “forza rinnovatrice” sappiamo amarci. Infatti, l’amore, quando si traduce in servizio, diventa visibile: si dimostra la autenticità dell’amore e così si manifesta la presenza del Padre nell’umanità. Questa manifestazione visibile è l’unico distintivo dei credenti in Gesù. Ponendo l’amore/servizio quale unico segno distintivo, Gesù esclude qualsiasi altro. Quando questo non è capito, si sceglie la strada dei surrogati: stemmi, insegne, abiti o decorazioni; ma, mentre abiti o insegne sono legate ad un determinato contesto culturale e sociale, limitato quindi geograficamente a una particolare parte del mondo, l’amore che si traduce in servizio è un linguaggio universale che non conosce limiti o confini razziali o geografici ed è l’unico distintivo prontamente riconoscibile da tutti.
Preghiera finale
O Dio, che nel Cristo tuo Figlio, rinnovi gli uomini e le cose, fa' che accogliamo come statuto della nostra vita il comandamento della carità, per amare te e i fratelli come tu ci ami, e così manifestare al mondo la forza rinnovatrice del tuo Spirito. Per Cristo nostro Signore, Amen.

venerdì 23 aprile 2010

LECTIO DIVINA 4ª DOMENICA DI PASQUA ANNO C

Orazione iniziale
Vieni, Spirito santo, nei nostri cuori e accendi in essi il fuoco del tuo amore, donaci la grazia di leggere e rileggere questa pagina del vangelo per farne memoria attiva, amante e operosa nella nostra vita. Noi vogliamo accostarci al mistero della persona di Gesù contenuto in questa immagine del pastore. Per questo ti chiediamo umilmente di aprire gli occhi della mente e del cuore per poter conoscere la potenza della sua resurrezione. Illumina, o Spirito di luce, la nostra mente perché possiamo comprendere le parole di Gesù Buon Pastore; riscalda il nostro cuore perché avvertiamo che non sono lontane da noi, ma sono la chiave della nostra esperienza presente. Vieni, o Spirito santo, perché senza di te il Vangelo appare una lettera morta; con te il Vangelo è Spirito di vita. Donaci, Padre, il santo Spirito; te lo chiediamo insieme con Maria, la madre di Gesù e madre nostra e con Elia, tuo profeta nel nome del tuo Figlio Gesù Cristo nostro Signore. Amen!
Prima lettura Att.13,14.43-52
Il testo inizia con il v.14, che contestualizza l’intera pericope che va da v.13 al v.52 e in cui viene narrata l’azione missionaria di Paolo e Barnaba ad Antiochia di Pisidia, città della Galazia meridionale (Asia minore -Turchia) e centro di una certa importanza, dato che era sede governativa e militare della provincia. Ci troviamo proprio all’inizio e insieme al centro del primo viaggio missionario che Paolo compie con Barnaba: infatti il narratore intende porre qui le basi di tutta l’attività evangelizzatrice di Paolo e con essa dell’intera missione della Chiesa.
La tattica missionaria consiste innanzitutto in un approccio con i giudei del luogo, al primo sabato nella sinagoga. Le parole dell'apostolo non lasciano indifferenti gli ascoltatori, sia i giudei che i proseliti, ossia i pagani in via di conversione al giudaismo e si fissa un appuntamento per il sabato seguente. Ma, nel frattempo, i giudei hanno tempo di riprendersi e consultarsi e organizzano una ferma resistenza ai nuovi arrivati avvalendosi dell'appoggio di persone autorevoli che erano o riuscirono a far schierare dalla loro parte. Non è detto che cosa contestassero, ma probabilmente la posizione superiore di Gesù rispetto agli altri profeti. Le loro «bestemmie» non riguardavano certamente Dio, ma Gesù Cristo che essi non accettavano come l'unto del Signore. È sempre Gesù la pietra di scandalo (cfr At 4,11), il segno di contraddizione (Lc 2,34). Ad Antiochia avviene così la rottura ufficiale tra il cristianesimo e il giudaismo della diaspora, come a Gerusalemme era avvenuta la separazione con il giudaismo palestinese. Il cristianesimo nasce dal solco della tradizione giudaica, ma d'ora in avanti perseguirà un cammino tutto proprio e spesso antagonistico con quello della sinagoga.
Come il rifiuto di Gesù quale Messia ha paradossalmente portato la salvezza attraverso il mistero della morte e risurrezione di Cristo, allo stesso modo, proprio il rifiuto giudaico del messaggio di salvezza portato dagli apostoli, è il passaggio attraverso cui si compie la promessa divina di una salvezza universale, rivolta a tutte le genti. Di fatto, la Pasqua ha liberato la Parola fatta carne su tutte le strade del mondo, attraverso l’annuncio degli apostoli e dei discepoli. É lei la protagonista: “si diffonde”, “cresce”, e “si moltiplica”, “si rafforza”; e così facendo riempie di “gioia” e di “Spirito Santo”, glorifica e porta alla vita eterna (vv.52.48) chi l’ascolta e l’accoglie (vv.44.46).
Seconda lettura Ap 7,9.14b-17. La tribolazione trasfigurata in gioia escatologica
L'Apocalisse trasferisce il lettore sempre in un mondo ideale, quello della risurrezione, di cui tutto si può dire, ma di nulla si può esser certi, salvo la sua realtà. L'uomo passa la sua prima esistenza in una realtà opaca, piena di contrasti e di contraddizioni e sogna che l'era futura sia il suo contrario, luminosa, pacifica, affascinante. Un mondo sempre da desiderare, oltre che attendere, in cui le ingiustizie e le sofferenze di quaggiù, la stessa morte scompariranno per sempre.
La fede è una visione ottimistica del futuro, la proiezione verso una vita senza fine dove non un piccolo numero, ma una moltitudine sterminata e plurirazziale entrerà a far parte. Quella di Ap 7 è una scena consolante ed esaltante. La vita terrena è una grande tribolazione in particolare per i credenti. Essi spesso periscono sotto il peso dei dominatori, ma la loro fine segna l'inizio di una vita nuova. Sono caduti sotto i ferri dei persecutori, ma si sono rialzati, indossano tuniche bianche che simboleggiano la luce da cui sono avvolti e nelle loro mani stringono la palma della vittoria. Erano degli sconfitti, ora sono dei vincitori! L'Agnello è il simbolo di Gesù Cristo morto e risorto; infatti anch'egli è «come immolato» e «in piedi» (5,6), per questo «è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore e gloria e benedizione» (5,12). É quanto la moltitudine dei martiri gli tributa in segno di riconoscenza. «La salvezza appartiene al nostro Dio e all'Agnello» (7,10). Ma la gioia nasce dal fatto che i credenti sono diventati partecipi del trionfo dell'Agnello che pascola e guida il suo gregge alle fonti dell'acqua della vita (v. 17). La simbologia del “pastore” (vedi Vangelo) ritrova nell’Apocalisse una nuova identità. La conoscenza-amore di Cristo-buon-pastore è giunta fino all’immolazione di sé. Il “pastore” è diventato l’Agnello pasquale.
Vangelo: Gv 10,27-30.
contesto
Il brano evangelico è una ripresa e una conclusione della lunga sezione su Gesù-buon-pastore (Gv c.10), i cui si distinguono la parabola (vv1.5) e la duplice spiegazione della “porta” (vv.6-10) e del “pastore”, in antitesi con il mercenario (vv.11-18). Quest’ ultimo discorso di Gesù vv. 27-28, è ambientato durante la festa giudaica della dedicazione del Tempio di Gerusalemme che cadeva verso la fine di dicembre (durante la quale si commemorava la riconsacrazione del Tempio violato dai siro-ellenisti, ad opera di Giuda Maccabeo nel 164 a.C). Le parole di Gesù sul rapporto tra il Pastore (Cristo) e le pecore (la Chiesa) appartengono ad un vero e proprio dibattito fra Gesù e i giudei. Questi rivolgono a Gesù una domanda chiara e reclamano una risposta altrettanto precisa e pubblica: «Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente» (10,24). La risposta di Gesù viene presentata in due tappe (vv. 25-31 e 32-39). Consideriamo brevemente il contesto della prima ove è inserito il nostro testo liturgico. I giudei non hanno compreso la parabola del pastore (Gv 10, 1-21) e ora domandano a Gesù una rivelazione più chiara della sua identità. Di per sé il motivo della loro incredulità non è da ricercarsi nella sua poca chiarezza, ma perché si rifiutano di appartenere alle sue pecore. Le parole di Gesù sono luce solo per chi crede, ascolta e vive all’interno della comunità, per chi decide di non credere, ascoltare e restare fuori, sono un enigma che sconcerta. All’incredulità dei Giudei, Gesù contrappone il comportamento di coloro che gli appartengono e che il Padre gli ha dato; ma anche della relazione con essi.
Spiegazione del testo.
v. 27. “le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”
• Le pecore di Gesù ascoltano la sua voce: si tratta non solo di un ascolto esterno (3,5; 5,37) ma anche un attento ascolto (5,28; 10,3) fino all’ascolto obbediente (10,16.27; 18,37; 5,25). Nel discorso del pastore questo ascolto esprime la confidenza e l’unione delle pecore al pastore (10,4). L’aggettivo «mie» non indica soltanto il semplice possesso delle pecore (animale noto per la sua mansuetudine), ma mette in evidenza che le pecore gli appartengono, e gli appartengono in quanto ne è il proprietario (10,12).
• Ecco, allora, stabilirsi una comunicazione intima tra Gesù e le pecore: «ed io le conosco» (10,27). Non si tratta di una conoscenza intellettuale; nel senso biblico «conoscere qualcuno» significa soprattutto avere un rapporto personale con lui, vivere in comunione di amore e di vita con lui. Gesù conosce le sue pecore perché le ama; così sono suoi discepoli quelli che hanno creduto al suo amore (cfr 1Gv 4,16) e si sono messi alla sua sequela (v. 27).
• In virtù di questa conoscenza d’amore, il Pastore invita i suoi a seguirlo. L’ascolto del Pastore comporta anche un discernimento, perché tra le tante voci possibili, sceglie quella che corrisponde a una precisa persona (Gesù). In seguito a questo discernimento, la risposta si fa attiva, personale e diventa obbedienza. Il verbo seguire (akoloutein) significa mettersi materialmente al seguito di qualcuno, ma nel vangelo equivale a diventare discepolo di Gesù, farsi suo «accolito». Questa proviene dall’ascolto. Quindi tra l’ascolto e la sequela del Pastore sta il conoscere Gesù.
v.28a. La conoscenza di Gesù delle sue pecore, apre un itinerario che conduce all’amore: «Io do loro la vita eterna». Per l’evangelista la vita è il dono della comunione con Dio. Mentre nei sinottici ‘vita’ o ‘vita eterna’ è connessa con il futuro; nel vangelo di Giovanni designa un possesso attuale. Tale aspetto viene spesso ripetuto nel racconto giovanneo: «Chi crede nel Figlio ha la vita eterna» (3,36); «In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna» (5,24; 6,47).
v.28b-29. “nessuno le strapperà dalla mia mano…”
Può essere utile sostare un momento sulla bella immagine della «mano». Per la Bibbia essa è metafora della potenza protettrice di Dio (cfr Dt 32,39; Is 43,13; Sap 3,l): chi è nelle sue mani è veramente al sicuro! Ma la mano è anche l'organo del corpo atto a compiere ogni sorta di operazioni, buone o cattive. Con la mano si può rapire, distruggere, fare violenza (come fanno il ladro e il lupo nominati ai vv. 10 e 12); oppure, al contrario, essa può essere usata per donare, accogliere, benedire, custodire, sostenere, guarire, salvare. La mano di Gesù sa solo compiere i gesti a servizio dell'amore, di quell'amore ricevuto dal Padre e ridonato totalmente - fino all'ultima briciola – per la salvezza delle sue pecore. Le pecore in mano a Gesù non hanno nulla da temere, perché non sono in mano a un mercenario che, appena vede arrivare il lupo, le abbandona e fugge. Nella sua mano nessuno andrà perduto perché essa, in ultima analisi, è la stessa mano del Padre (cfr v. 29!). È il Padre che ha dato le pecore in mano al Figlio (cfr 3,35: «Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa») ed è lo stesso Padre che continua a vegliare su di esse e a proteggerle con la forza del suo potere (Egli «è più grande di tutti», più forte di qualsiasi ladro o lupo che sia). Esse sono assolutamente al sicuro nelle mani del Figlio perché il Figlio è totalmente nelle mani del Padre. Anzi, come si dice al v. 30, è una sola cosa con lui: «Io e il Padre siamo uno».
v.30. “Io e il Padre siamo una cosa sola”
Questa frase è la chiave di tutto il discorso che Gesù sta portando avanti con i suoi interlocutori. Essi vogliono un segno della sua messianicità e la risposta unica che ha addotto (cap. VIII) e che ora ribadisce, è nella sintonia operativa tra lui e Dio. Quello che il Padre fa da sempre, il bene, fa anche lui che sta spendendo la vita per gli altri. Gesù e il Padre sanno amare così disinteressatamente, anzi con il discapito della propria reputazione e della stessa vita, per questo Gesù può affermare che il suo amore per l'uomo è estremo (13,1) e che non esiste un'altra carità più grande della sua (15,13). Il disegno della salvezza è un circolo concentrico che parte da Dio e a lui fa ritorno. Accettarlo, farlo proprio, credere, è inserire la propria esistenza in questo circuito che porta l'uomo all'amicizia e alla comunione di vita con Dio.
Gesù è il buon pastore che difende il suo gregge (10,11); il Padre non si lascia strappare nessuno di coloro che sono uniti a lui: questa fede è quella che conta sopra ogni cosa (v. 29). Ma agli occhi dell'uomo non appare nulla di questi legami misteriosi; bisogna avere il coraggio di credere che essi esistono realmente e cercare di rinsaldarli ogni giorno, perché ogni giorno c'è il pericolo di perderli di vista. In realtà, il discepolo di Gesù non si misura da quello che egli sa dire su di lui, ma da quello che sa compiere sul suo esempio (13,15).
Significativamente, la liturgia ci fa leggere questi testi dopo la Pasqua, dopo cioè aver celebrato e fatto memoria di quel singolare pastore che ha offerto la vita per le sue pecore affinché esse abbiano a ritrovarla in abbondanza (cfr Gv 10,10 s.). Queste pecore, smarrite e disperse al momento della passione (cfr Mc 14,27 par.), ritrovano il loro pastore dopo la risurrezione, sotto le sembianze di un Agnello che le guida e le conduce alle fonti delle acque della vita (cfr Ap 7,17: seconda lettura).
Preghiera finale:
Ti chiediamo, Signore, di manifestarti a ciascuno di noi come il Buon Pastore, che, nella forza della Pasqua, ricostituisci, rianimi i tuoi, con tutta la delicatezza della tua presenza, con tutta la forza del tuo Spirito. Ti chiediamo di aprire i nostri occhi, perché possiamo conoscere come tu ci guidi, sostieni la nostra volontà di seguirti ovunque tu ci condurrai. Concedi a noi la grazia di non essere strappati dalle tue mani di Buon Pastore ed di non essere in balia del male che ci minaccia, delle divisioni che si annidano all’interno del nostro cuore. Tu, O Cristo, sei il pastore, la nostra guida, il nostro esempio, il nostro conforto, il nostro fratello. Amen!

sabato 17 aprile 2010

LECTIO DIVINA III DOMENICA DI PASQUA


Orazione iniziale

Manda il tuo santo Spirito, o Padre, perché la notte infruttuosa della nostra vita si trasformi nell’alba radiosa in cui riconosciamo il tuo Figlio Gesù presente in mezzo a noi. Aleggi il tuo Spirito sulle acque del nostro mare, come già al principio della creazione e si aprano i nostri cuori all’invito d’amore del Signore, per partecipare al banchetto imbandito del suo Corpo e della sua Parola. Arda in noi, o Padre, il tuo Spirito, perché diventiamo testimoni di Gesù, come Pietro, come Giovanni, come gli altri discepoli e usciamo anche noi, ogni giorno, per la pesca del tuo regno. Amen.
Prima Lettura  (At 5,27b-32.40b-41) ”Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini.”
Il contenuto del  messaggio è la morte, la risurrezione e l’aspetto salvifico degli eventi di Pasqua.
L’arresto e l’imprigionamento degli apostoli era in potere del sommo sacerdote e l’esame delle accuse toccava al Sinedrio che era competente in tutto ciò che aveva relazione con la legge, specialmente nel suo aspetto religioso.
Il sommo sacerdote in presenza del Sinedrio accusa gli apostoli di due cose: disubbidienza agli ordini ricevuti e diffamazione per averli considerati responsabili della morte di Gesù.
Pietro senza le esitazioni e le incertezze del passato, proclama coraggiosamente il principio della libertà di fede: “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”.
Obbedire nella Bibbia è sinonimo di credere, perciò Pietro afferma la forza critica della fede nei confronti dell’autorità umana, politica o religiosa quando essa si arroga dignità e ruoli assoluti che non rispettano e ledono la libertà e la sincerità autentica della coscienza.
I discepoli ubbidiscono a Dio accettando di predicare quello che Dio ha fatto in Gesù in favore degli uomini. La prima cosa che richiama l’attenzione è l“allergia” che gli accusatori mostrano di avere per il nome di Gesù essi infatti parlano di “quell’uomo”.
In secondo luogo essi devono però riconoscere che “quell’uomo” ha fatto strada: tutta la città parla di lui in conseguenza della predicazione degli apostoli e questo brucia molto a loro.
Era il riconoscimento e la glorificazione di Gesù; ma questo implicava, allo stesso tempo, la condanna di coloro che lo avevano messo a morte. Il rigetto di Gesù da parte loro non fu solo una colpa, ma un formidabile errore, che Dio stesso si è incaricato di mettere in luce, risuscitando Gesù. Con la risurrezione Dio ha costituito “quell’uomo” principe e salvatore: principe nel senso di capo e guida del nuovo popolo come fu Mosè per il popolo antico.
“Salvatore”: titolo dato a chi salva una città, soccorre e guarisce il popolo. Il Nuovo Testamento lo riferisce a Gesù in quanto liberatore dal peccato e dalla morte.
L’accusato in questo processo non è solo Pietro ma Gesù stesso che ora, come aveva promesso, mette
sulle labbra del suo discepolo la risposta giusta e la fermezza necessaria. Il conflitto tra la Chiesa e il Sinedrio non è che la continuazione di quello che ha condotto Gesù sul
patibolo. Ma la vittoria di Dio sulla morte fa intuire quale sarà l’esito di questo continuo confronto e la notazione finale degli apostoli, fustigati e minacciati eppure lieti e coraggiosi, ne è la più viva testimonianza e dimostrazione (vv.40-41).
 Seconda Lettura (Ap 5,11-14) ” L'Agnello che fu immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza”
La seconda lettura di oggi è dal libro dell’Apocalisse di Giovanni che descrive la visione che lui stesso ha di Cristo posto sul trono e l’adorazione che a lui rende l’universo intero a cominciare dagli angeli fino alle creature della terra, sotto la terra e del mare.
Gesù è definito l’“agnello immolato” perché è in forza della sua opera salvifica che è degno di lode.
In suo onore si leva un inno di acclamazione nel quale si fondono le voci del cosmo, degli angeli e dei
santi che stanno davanti a Dio e, in seguito, degli uomini salvati, appartenenti a tutti i popoli della terra.
La solenne azione liturgica assume così dimensioni veramente universali, per celebrare la salvezza
pasquale operata da Dio e dal suo Cristo.
Ad essa si associa, qui sulla terra, la liturgia eucaristica. La celebrazione eucaristica della nostra assemblea è così immagine e anticipazione dell’assemblea escatologica.
La lode cosmica dell’Apocalisse si realizza oggi nell’assemblea celebrante, per rendere onore, gloria e
testimonianza all’Agnello che ci ha redenti.
L’agnello è il Cristo morto e risorto nella pienezza della sua funzione messianica, col possesso completo dello Spirito. Egli coordina ed attua efficacemente tutto lo svolgimento della storia della salvezza.
Il trono indica la sovranità assoluta di Dio sull’essere e sulla storia, sovranità che ora è esercitata dal Cristo risorto. Gli “anziani” esprimono l’intero popolo eletto, sono quindi gli apostoli, i martiri, i testimoni della fede, i giusti.
Tutta l’umanità e tutto il creato rispondono con la loro lode sinfonica: “A colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza nei secoli dei secoli”. 
Terza Lettura   dal Vangelo di Giovanni 21, 1-19  ” Veniamo anche noi con te.”
Contesto del brano
Questa pesca miracolosa è l’ultimo “segno” di Gesù. Egli non si rivela, rimane misterioso, ma la fede del vero discepolo sa riconoscerlo. Anche la pesca è un simbolo: i discepoli vanno a pesca di uomini, ma è lui stesso che dirige la pesca e riempie la rete.
Gesù, come aveva previsto il rinnegamento di Pietro, così riconosce il suo amore e può assicurare che
l’apostolo lo seguirà fino al sacrificio della propria vita.
Con questo toccante dialogo Gesù fa di Pietro un segno della propria perenne presenza presso di noi
come Buon Pastore. I poteri di Cristo passano quindi a Pietro che può iniziare la sua missione.
Gettare la rete dalla parte destra era un augurio, un auspicio di fortuna essendo, nel linguaggio semitico, la “destra” il simbolo della buona sorte e del benessere.
Il numero dei pesci forse simbolico, che però non è giunto fino a noi, forse vuole sottolineare una
testimonianza oculare. Se i pesci devono simboleggiare la totalità dei popoli che devono entrare nella Chiesa, e se la rete non si spezza, questo fatto deve simboleggiare l’unità della Chiesa.
Nel racconto di Giovanni, nel quale Gesù offre a Pietro l’opportunità per la triplice confessione d’amore, abbiamo il parallelo del triplice rinnegamento.
Fino ad ora Gesù era stato pastore; ora, nel tempo della Chiesa, questo ufficio è affidato a Pietro.
Nella scena del banchetto il pranzo è preparato da Gesù stesso e i gesti che egli compie (v.13) evocano i banchetti con il Gesù terreno e, forse, anche quello dell’Ultima Cena.
Ora la comunione con il Gesù terrestre si trasforma in dialogo e comunione con il Cristo risorto presente, vicino alla sua Chiesa anche nel succedersi quotidiano della storia.
Le pecore affidate a Pietro sono sempre e innanzitutto “mie”, cioè di Gesù; la missione di Pietro è, quindi, tutta orientata al Cristo buon pastore e deve essere pronta a raggiungere lo stesso vertice di donazione. La strana dichiarazione del v.18 preannuncia, infatti, il destino di Pietro che, come “ il buon pastore darà la vita per le sue pecore”, dovrà “glorificare Dio con la sua morte”.
La coerenza della testimonianza cristiana anche in situazioni difficili è uno dei temi di ieri, di oggi e di
sempre: una testimonianza ferma ma non arrogante, decisa ma non provocatoria, umile ma incrollabile.
Pietro è la figura del Pastore, della guida, del compagno di viaggio, ma anche la figura del discepolo la cui caratteristica fondamentale è l’amore fino alla donazione totale di sé.
                                            Suddivisione del brano
v.1: Con la doppia ripetizione del verbo ‘manifestarsi’, Giovanni attira subito la nostra attenzione su un evento grande che sta per compiersi. La potenza della risurrezione di Gesù non ha ancora finito di invadere la vita dei discepoli e quindi della Chiesa; occorre disporsi ad accogliere la luce, la presenza, la salvezza che Cristo ci dona. E come si manifesta ora, in questo brano, così continuerà sempre a manifestarsi nella vita dei credenti. Anche nella nostra.
vv. 2- 3: Pietro e altri sei discepoli escono dal chiuso del cenacolo e si spingono fuori, verso il mare per pescare, ma dopo tutta una notte di fatica, non prendono nulla. E’ il buio, la solitudine, l’incapacità delle forze umane.
vv. 4-8: Finalmente spunta l’alba, torna la luce e compare Gesù ritto sulla riva del mare. Ma i discepoli non lo riconoscono ancora; hanno bisogno di compiere un cammino interiore molto forte. L’iniziativa è del Signore che, con le sue parole, li aiuta a prendere coscienza del loro bisogno, della loro condizione: non hanno nulla da mangiare. Poi li invita a gettare di nuovo la rete; l’obbedienza alla sua Parola compie il miracolo e la pesca è sovrabbondante. Giovanni, il discepolo dell’amore, riconosce il Signore e grida la sua fede agli altri discepoli. Pietro aderisce immediatamente e si butta in mare per raggiungere al più presto il suo Signore e Maestro. Gli altri, invece, si avvicinano trascinando la barca e la rete.
vv. 9-14: La scena si sposta sulla terra ferma, dove Gesù stava aspettando i discepoli. Qui si realizza il banchetto: il pane di Gesù è unito ai pesci dei discepoli, la sua vita e il suo dono diventano tutt’uno col la vita e il dono loro. E’ la forza della Parola che diventa carne, diventa esistenza.
vv. 15-18: Adesso Gesù parla direttamente al cuore di Pietro; è un momento d’amore molto forte, dal quale non posso restare fuori, perché quelle precise parole del Signore sono scritte e ripetute anche per me, oggi. Una reciproca dichiarazione d’amore ribadita per tre volte, capace di superare tutte le infedeltà, le debolezze, i cedimenti. Da adesso comincia una vita nuova, per Pietro e anche per me, se lo voglio.
v. 19: Questo versetto, che chiude il brano, è un po’ particolare, perché presenta un commento dell’evangelista e subito di nuovo lascia risuonare la parola di Gesù per Pietro, parola fortissima e definitiva: “Seguimi!”, alla quale non c’è altra risposta che la vita stessa.
a) “Uscirono e salirono sulla barca” (v. 3). Sono disposto, anch’io, a compiere questo percorso di conversione? Mi lascio risvegliare dall’invito di Gesù? O preferisco continuare a rimanere nascosto, dietro le mie porte chiuse per paura, come erano i discepoli nel cenacolo? Voglio decidermi a venir fuori, a uscire dietro a Gesù, a lasciarmi da Lui inviare? C’è una barca pronta anche per me, c’è una vocazione d’amore che il Signore mi ha donato; quando mi deciderò a rispondere veramente?
b) “…Ma in quella notte non presero nulla” (ivi). Ho il coraggio di lasciarmi dire dal Signore che in me c’è il vuoto, che è notte, che non ho nulla fra le mani? Ho il coraggio di riconoscermi bisognoso di Lui, della sua presenza? Voglio rivelare a Lui il mio cuore, il più profondo di me stesso, quello che cerco continuamente di negare, di tenere nascosto? Lui sa tutto, mi conosce fino in fondo; vede che non ho nulla da mangiare; però sono io che devo rendermene conto, che devo finalmente arrivare da Lui a mani vuote, magari piangendo, col cuore gonfio di tristezza e angoscia. Se non faccio questo passo, non spunterà mai la vera luce, l’alba del mio giorno nuovo.
c) “Gettate la rete dalla parte destra” (v. 6). Il Signore mi parla anche chiaramente; c’è un momento in cui, grazie a una persona, a un incontro di preghiera, a una Parola ascoltata, io comprendo chiaramente cosa devo fare. Il comando è chiarissimo; bisogna solo ascoltare e obbedire. “Getta dalla parte destra”, mi dice il Signore. Ho il coraggio di fidarmi di Lui, finalmente, o voglio continuare a fare di testa mia, a prendere le mie misure? La mia rete, voglio gettarla a Lui?
d) “Simon Pietro … si gettò in mare” (v. 7). Non so se si possa trovare un versetto più bello di questo. Pietro gettò se stesso, come la vedova al tempio gettò tutto quanto aveva per vivere, come l’indemoniato guarito (Mc 5, 6), come Giairo, come l’emorroissa, come il lebbroso, che si gettarono ai piedi di Gesù, consegnando a Lui la loro vita. O come Gesù stesso, che si gettò a terra e pregava il Padre suo (Mc 14, 35). Adesso è il mio momento. Voglio, anch’io, gettarmi nel mare della misericordia, dell’amore del Padre, voglio consegnare a Lui tutta la mia vita, la mia persona, i miei dolori, le speranze, i desideri, i miei peccati, la mia voglia di ricominciare? Le sue braccia sono pronte ad accogliermi, anzi, sono sicuro: sarà Lui a gettarsi al mio collo, come sta scritto … “Il padre lo vide da lontano, gli corse incontro e si gettò al suo collo e lo baciò”.
e) “Portate dei pesci che avete preso ora” (v. 10). Il Signore mi chiede di unire al suo cibo il mio, alla sua vita la mia. E siccome si tratta di pesci, significa che l’evangelista sta parlando di persone, quelli che il Signore stesso vuole salvare, anche attraverso la mia pesca. Perché per questo Lui mi invia. E alla sua mensa, alla sua festa, Egli aspetta me, ma aspetta anche tutti quei fratelli e quelle sorelle che nel suo amore Egli consegna alla mia vita. Non posso andare da Gesù da solo. Questa Parola, allora, mi chiede se sono disposto ad avvicinarmi al Signore, a sedermi alla sua tavola, a fare Eucaristia con Lui e se sono disposto a spendere la mia vita, le mie forze, per portare con me da Lui 
tanti fratelli. Devo guardarmi con sincerità nel cuore e scoprire le mie resistenze, le mie chiusure a Lui e agli altri.
f) “Mi ami tu?” (v. 15). Come faccio a rispondere a questa domanda? Chi ha il coraggio di proclamare il suo amore per Dio? Mentre vengono a galla tutte le mie infedeltà, i miei rinnegamenti; perché quello che è successo a Pietro fa parte anche della mia storia. Però non voglio che questa paura mi blocchi e mi faccia indietreggiare; no! Io voglio andare da Gesù, voglio stare con Lui, voglio avvicinarmi e dirgli che, sì, io lo amo, gli voglio bene. Prendo a prestito le parole stesse di Pietro e le faccio mie, me le scrivo sul cuore, le ripeto, le rumino, le faccio respirare e vivere nella mia vita e poi prendo coraggio e le dico davanti al volto di Gesù: “Signore, tu sai tutto; tu sai che io ti amo”. Così come sono, io Lo amo. Grazie, Signore, che mi chiedi l’amore, che mi aspetti, mi desideri; grazie, perché tu gioisci del mio povero amore.
g) “Pasci le mie pecore… Seguimi” (vv. 15. 19). Ecco, il brano termina così e rimane aperto, continua a parlarmi. Questa è la parola che il Signore mi consegna, perché io la realizzi nella mia vita, da oggi in poi. Voglio accogliere la missione che il Signore mi affida; voglio rispondere alla sua chiamata e voglio seguirlo, dove Egli mi condurrà. Ogni giorno, nelle piccole cose.
Preghiera finale
Grazie, o Padre, per avermi accompagnato al di là della notte, verso l’alba nuova dove mi è venuto incontro il tuo Figlio Gesù. Grazie per avere aperto il mio cuore all’accoglienza della Parola e avere operato il prodigio di una pesca sovrabbondante nella mia vita. Grazie per il battesimo nelle acque della misericordia e dell’amore, per il banchetto sulla riva del mare. Grazie per i fratelli e le sorelle che sempre siedono con me attorno alla mensa del Signore Gesù, offerto per noi. E grazie perché non ti stanchi di avvicinarti alla nostra vita e di mettere a nudo il nostro cuore, Tu che solo lo puoi veramente guarire. Grazie, infine, per la chiamata che anche oggi il Signore mi ha rivolto, dicendomi: “Tu, seguimi!”. O, infinito Amore, io voglio venire con Te, voglio portarti ai miei fratelli!