venerdì 23 aprile 2010

LECTIO DIVINA 4ª DOMENICA DI PASQUA ANNO C

Orazione iniziale
Vieni, Spirito santo, nei nostri cuori e accendi in essi il fuoco del tuo amore, donaci la grazia di leggere e rileggere questa pagina del vangelo per farne memoria attiva, amante e operosa nella nostra vita. Noi vogliamo accostarci al mistero della persona di Gesù contenuto in questa immagine del pastore. Per questo ti chiediamo umilmente di aprire gli occhi della mente e del cuore per poter conoscere la potenza della sua resurrezione. Illumina, o Spirito di luce, la nostra mente perché possiamo comprendere le parole di Gesù Buon Pastore; riscalda il nostro cuore perché avvertiamo che non sono lontane da noi, ma sono la chiave della nostra esperienza presente. Vieni, o Spirito santo, perché senza di te il Vangelo appare una lettera morta; con te il Vangelo è Spirito di vita. Donaci, Padre, il santo Spirito; te lo chiediamo insieme con Maria, la madre di Gesù e madre nostra e con Elia, tuo profeta nel nome del tuo Figlio Gesù Cristo nostro Signore. Amen!
Prima lettura Att.13,14.43-52
Il testo inizia con il v.14, che contestualizza l’intera pericope che va da v.13 al v.52 e in cui viene narrata l’azione missionaria di Paolo e Barnaba ad Antiochia di Pisidia, città della Galazia meridionale (Asia minore -Turchia) e centro di una certa importanza, dato che era sede governativa e militare della provincia. Ci troviamo proprio all’inizio e insieme al centro del primo viaggio missionario che Paolo compie con Barnaba: infatti il narratore intende porre qui le basi di tutta l’attività evangelizzatrice di Paolo e con essa dell’intera missione della Chiesa.
La tattica missionaria consiste innanzitutto in un approccio con i giudei del luogo, al primo sabato nella sinagoga. Le parole dell'apostolo non lasciano indifferenti gli ascoltatori, sia i giudei che i proseliti, ossia i pagani in via di conversione al giudaismo e si fissa un appuntamento per il sabato seguente. Ma, nel frattempo, i giudei hanno tempo di riprendersi e consultarsi e organizzano una ferma resistenza ai nuovi arrivati avvalendosi dell'appoggio di persone autorevoli che erano o riuscirono a far schierare dalla loro parte. Non è detto che cosa contestassero, ma probabilmente la posizione superiore di Gesù rispetto agli altri profeti. Le loro «bestemmie» non riguardavano certamente Dio, ma Gesù Cristo che essi non accettavano come l'unto del Signore. È sempre Gesù la pietra di scandalo (cfr At 4,11), il segno di contraddizione (Lc 2,34). Ad Antiochia avviene così la rottura ufficiale tra il cristianesimo e il giudaismo della diaspora, come a Gerusalemme era avvenuta la separazione con il giudaismo palestinese. Il cristianesimo nasce dal solco della tradizione giudaica, ma d'ora in avanti perseguirà un cammino tutto proprio e spesso antagonistico con quello della sinagoga.
Come il rifiuto di Gesù quale Messia ha paradossalmente portato la salvezza attraverso il mistero della morte e risurrezione di Cristo, allo stesso modo, proprio il rifiuto giudaico del messaggio di salvezza portato dagli apostoli, è il passaggio attraverso cui si compie la promessa divina di una salvezza universale, rivolta a tutte le genti. Di fatto, la Pasqua ha liberato la Parola fatta carne su tutte le strade del mondo, attraverso l’annuncio degli apostoli e dei discepoli. É lei la protagonista: “si diffonde”, “cresce”, e “si moltiplica”, “si rafforza”; e così facendo riempie di “gioia” e di “Spirito Santo”, glorifica e porta alla vita eterna (vv.52.48) chi l’ascolta e l’accoglie (vv.44.46).
Seconda lettura Ap 7,9.14b-17. La tribolazione trasfigurata in gioia escatologica
L'Apocalisse trasferisce il lettore sempre in un mondo ideale, quello della risurrezione, di cui tutto si può dire, ma di nulla si può esser certi, salvo la sua realtà. L'uomo passa la sua prima esistenza in una realtà opaca, piena di contrasti e di contraddizioni e sogna che l'era futura sia il suo contrario, luminosa, pacifica, affascinante. Un mondo sempre da desiderare, oltre che attendere, in cui le ingiustizie e le sofferenze di quaggiù, la stessa morte scompariranno per sempre.
La fede è una visione ottimistica del futuro, la proiezione verso una vita senza fine dove non un piccolo numero, ma una moltitudine sterminata e plurirazziale entrerà a far parte. Quella di Ap 7 è una scena consolante ed esaltante. La vita terrena è una grande tribolazione in particolare per i credenti. Essi spesso periscono sotto il peso dei dominatori, ma la loro fine segna l'inizio di una vita nuova. Sono caduti sotto i ferri dei persecutori, ma si sono rialzati, indossano tuniche bianche che simboleggiano la luce da cui sono avvolti e nelle loro mani stringono la palma della vittoria. Erano degli sconfitti, ora sono dei vincitori! L'Agnello è il simbolo di Gesù Cristo morto e risorto; infatti anch'egli è «come immolato» e «in piedi» (5,6), per questo «è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore e gloria e benedizione» (5,12). É quanto la moltitudine dei martiri gli tributa in segno di riconoscenza. «La salvezza appartiene al nostro Dio e all'Agnello» (7,10). Ma la gioia nasce dal fatto che i credenti sono diventati partecipi del trionfo dell'Agnello che pascola e guida il suo gregge alle fonti dell'acqua della vita (v. 17). La simbologia del “pastore” (vedi Vangelo) ritrova nell’Apocalisse una nuova identità. La conoscenza-amore di Cristo-buon-pastore è giunta fino all’immolazione di sé. Il “pastore” è diventato l’Agnello pasquale.
Vangelo: Gv 10,27-30.
contesto
Il brano evangelico è una ripresa e una conclusione della lunga sezione su Gesù-buon-pastore (Gv c.10), i cui si distinguono la parabola (vv1.5) e la duplice spiegazione della “porta” (vv.6-10) e del “pastore”, in antitesi con il mercenario (vv.11-18). Quest’ ultimo discorso di Gesù vv. 27-28, è ambientato durante la festa giudaica della dedicazione del Tempio di Gerusalemme che cadeva verso la fine di dicembre (durante la quale si commemorava la riconsacrazione del Tempio violato dai siro-ellenisti, ad opera di Giuda Maccabeo nel 164 a.C). Le parole di Gesù sul rapporto tra il Pastore (Cristo) e le pecore (la Chiesa) appartengono ad un vero e proprio dibattito fra Gesù e i giudei. Questi rivolgono a Gesù una domanda chiara e reclamano una risposta altrettanto precisa e pubblica: «Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente» (10,24). La risposta di Gesù viene presentata in due tappe (vv. 25-31 e 32-39). Consideriamo brevemente il contesto della prima ove è inserito il nostro testo liturgico. I giudei non hanno compreso la parabola del pastore (Gv 10, 1-21) e ora domandano a Gesù una rivelazione più chiara della sua identità. Di per sé il motivo della loro incredulità non è da ricercarsi nella sua poca chiarezza, ma perché si rifiutano di appartenere alle sue pecore. Le parole di Gesù sono luce solo per chi crede, ascolta e vive all’interno della comunità, per chi decide di non credere, ascoltare e restare fuori, sono un enigma che sconcerta. All’incredulità dei Giudei, Gesù contrappone il comportamento di coloro che gli appartengono e che il Padre gli ha dato; ma anche della relazione con essi.
Spiegazione del testo.
v. 27. “le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”
• Le pecore di Gesù ascoltano la sua voce: si tratta non solo di un ascolto esterno (3,5; 5,37) ma anche un attento ascolto (5,28; 10,3) fino all’ascolto obbediente (10,16.27; 18,37; 5,25). Nel discorso del pastore questo ascolto esprime la confidenza e l’unione delle pecore al pastore (10,4). L’aggettivo «mie» non indica soltanto il semplice possesso delle pecore (animale noto per la sua mansuetudine), ma mette in evidenza che le pecore gli appartengono, e gli appartengono in quanto ne è il proprietario (10,12).
• Ecco, allora, stabilirsi una comunicazione intima tra Gesù e le pecore: «ed io le conosco» (10,27). Non si tratta di una conoscenza intellettuale; nel senso biblico «conoscere qualcuno» significa soprattutto avere un rapporto personale con lui, vivere in comunione di amore e di vita con lui. Gesù conosce le sue pecore perché le ama; così sono suoi discepoli quelli che hanno creduto al suo amore (cfr 1Gv 4,16) e si sono messi alla sua sequela (v. 27).
• In virtù di questa conoscenza d’amore, il Pastore invita i suoi a seguirlo. L’ascolto del Pastore comporta anche un discernimento, perché tra le tante voci possibili, sceglie quella che corrisponde a una precisa persona (Gesù). In seguito a questo discernimento, la risposta si fa attiva, personale e diventa obbedienza. Il verbo seguire (akoloutein) significa mettersi materialmente al seguito di qualcuno, ma nel vangelo equivale a diventare discepolo di Gesù, farsi suo «accolito». Questa proviene dall’ascolto. Quindi tra l’ascolto e la sequela del Pastore sta il conoscere Gesù.
v.28a. La conoscenza di Gesù delle sue pecore, apre un itinerario che conduce all’amore: «Io do loro la vita eterna». Per l’evangelista la vita è il dono della comunione con Dio. Mentre nei sinottici ‘vita’ o ‘vita eterna’ è connessa con il futuro; nel vangelo di Giovanni designa un possesso attuale. Tale aspetto viene spesso ripetuto nel racconto giovanneo: «Chi crede nel Figlio ha la vita eterna» (3,36); «In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna» (5,24; 6,47).
v.28b-29. “nessuno le strapperà dalla mia mano…”
Può essere utile sostare un momento sulla bella immagine della «mano». Per la Bibbia essa è metafora della potenza protettrice di Dio (cfr Dt 32,39; Is 43,13; Sap 3,l): chi è nelle sue mani è veramente al sicuro! Ma la mano è anche l'organo del corpo atto a compiere ogni sorta di operazioni, buone o cattive. Con la mano si può rapire, distruggere, fare violenza (come fanno il ladro e il lupo nominati ai vv. 10 e 12); oppure, al contrario, essa può essere usata per donare, accogliere, benedire, custodire, sostenere, guarire, salvare. La mano di Gesù sa solo compiere i gesti a servizio dell'amore, di quell'amore ricevuto dal Padre e ridonato totalmente - fino all'ultima briciola – per la salvezza delle sue pecore. Le pecore in mano a Gesù non hanno nulla da temere, perché non sono in mano a un mercenario che, appena vede arrivare il lupo, le abbandona e fugge. Nella sua mano nessuno andrà perduto perché essa, in ultima analisi, è la stessa mano del Padre (cfr v. 29!). È il Padre che ha dato le pecore in mano al Figlio (cfr 3,35: «Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa») ed è lo stesso Padre che continua a vegliare su di esse e a proteggerle con la forza del suo potere (Egli «è più grande di tutti», più forte di qualsiasi ladro o lupo che sia). Esse sono assolutamente al sicuro nelle mani del Figlio perché il Figlio è totalmente nelle mani del Padre. Anzi, come si dice al v. 30, è una sola cosa con lui: «Io e il Padre siamo uno».
v.30. “Io e il Padre siamo una cosa sola”
Questa frase è la chiave di tutto il discorso che Gesù sta portando avanti con i suoi interlocutori. Essi vogliono un segno della sua messianicità e la risposta unica che ha addotto (cap. VIII) e che ora ribadisce, è nella sintonia operativa tra lui e Dio. Quello che il Padre fa da sempre, il bene, fa anche lui che sta spendendo la vita per gli altri. Gesù e il Padre sanno amare così disinteressatamente, anzi con il discapito della propria reputazione e della stessa vita, per questo Gesù può affermare che il suo amore per l'uomo è estremo (13,1) e che non esiste un'altra carità più grande della sua (15,13). Il disegno della salvezza è un circolo concentrico che parte da Dio e a lui fa ritorno. Accettarlo, farlo proprio, credere, è inserire la propria esistenza in questo circuito che porta l'uomo all'amicizia e alla comunione di vita con Dio.
Gesù è il buon pastore che difende il suo gregge (10,11); il Padre non si lascia strappare nessuno di coloro che sono uniti a lui: questa fede è quella che conta sopra ogni cosa (v. 29). Ma agli occhi dell'uomo non appare nulla di questi legami misteriosi; bisogna avere il coraggio di credere che essi esistono realmente e cercare di rinsaldarli ogni giorno, perché ogni giorno c'è il pericolo di perderli di vista. In realtà, il discepolo di Gesù non si misura da quello che egli sa dire su di lui, ma da quello che sa compiere sul suo esempio (13,15).
Significativamente, la liturgia ci fa leggere questi testi dopo la Pasqua, dopo cioè aver celebrato e fatto memoria di quel singolare pastore che ha offerto la vita per le sue pecore affinché esse abbiano a ritrovarla in abbondanza (cfr Gv 10,10 s.). Queste pecore, smarrite e disperse al momento della passione (cfr Mc 14,27 par.), ritrovano il loro pastore dopo la risurrezione, sotto le sembianze di un Agnello che le guida e le conduce alle fonti delle acque della vita (cfr Ap 7,17: seconda lettura).
Preghiera finale:
Ti chiediamo, Signore, di manifestarti a ciascuno di noi come il Buon Pastore, che, nella forza della Pasqua, ricostituisci, rianimi i tuoi, con tutta la delicatezza della tua presenza, con tutta la forza del tuo Spirito. Ti chiediamo di aprire i nostri occhi, perché possiamo conoscere come tu ci guidi, sostieni la nostra volontà di seguirti ovunque tu ci condurrai. Concedi a noi la grazia di non essere strappati dalle tue mani di Buon Pastore ed di non essere in balia del male che ci minaccia, delle divisioni che si annidano all’interno del nostro cuore. Tu, O Cristo, sei il pastore, la nostra guida, il nostro esempio, il nostro conforto, il nostro fratello. Amen!

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