giovedì 4 marzo 2010

LECTIO DIVINA 3a Dom.Quaresima


Preghiera iniziale:
Signore Gesù, invia il tuo Spirito, perché ci aiuti a leggere la Scrittura con lo stesso sguardo con il quale l'hai letta Tu per i discepoli sulla strada di Emmaus. Con la luce della Parola, scritta nella Bibbia, Tu li aiutasti a scoprire la presenza di Dio negli avvenimenti sconvolgenti della tua condanna e della tua morte. Così, la croce che sembrava essere la fine di ogni speranza, è apparsa loro come sorgente di vita e di risurrezione. Crea in noi il silenzio per ascoltare la tua voce nella creazione e nella Scrittura, negli avvenimenti e nelle persone, soprattutto nei poveri e sofferenti. La tua Parola ci orienti, affinché anche noi, come i due discepoli di Emmaus, possiamo sperimentare la forza della tua risurrezione e testimoniare agli altri che Tu sei vivo in mezzo a noi come fonte di fraternità, di giustizia e di pace. Questo noi chiediamo a Te, Gesù, figlio di Maria, che ci hai rivelato il Padre e inviato lo Spirito. Amen.
Prima lettura: Es 3,1-8°.13-15
Il brano è diviso in due parti: nella prima parte,  vv 1-8a troviamo Mosè nel deserto, l’apparizione di Dio, la vocazione e la missione di Mosè; nella seconda parte, vv 13-15 la rivelazione del nome di Dio. 
Prima parte
v.1. Mosè è “pastore” del gregge di Ietro suo suocero. Egli arriva al monte di Dio, “Oreb” (= arido, secco), verosimilmente luogo di culto già per i nomadi del deserto. “Oreb” è il nome che le tradizioni del regno del Nord assegnano al Sinai (Es 17,6; 1Re 19,8, ecc)
v.2. “l’angelo (messaggero) del Signore” è espressione biblica classica per indicare lo stesso JHWH nelle sue svariate forme di apparizione e manifestazione (cfr. Gn 16,7-14; 21,14-21, Gs 5,13-16; Gdc 6,11-24).
Il “fuoco” è una delle immagini più comuni nella Bibbia per indicare la presenza di Dio: nel deserto il Signore guidava il suo popolo “con una colonna di fuoco” (Es 13,21), “scendeva nel fuoco” (Es 19,18), “la sua voce parlava dal fuoco” (Dt 4,33).  il fuoco divorante (Es 24,17; Dt 4,24; 9,2), è il “fuoco che viene dal cielo”, il “fuoco di Dio” (cfr 1Re 18,38; 2Re 1, 10-14) e spesso anche nei profeti (cfr Is 10,17; Ez 1,4,14.27).  Anche qui il fuoco indica la voce di Dio che rivela al suo servo la missione difficile e rischiosa cui è chiamato.
“Il Roveto in ebraico s’neh, è un termine che indica un arbusto spinoso, alto un metro, ancora oggi presente in Palestina nei dintorni del Mar morto. Da esso defluiscono oli essenziali che, nelle giornate molto calde, si incendiano. In questo testo l’autore biblico usa l’immagine del roveto ardente che non si consuma, per esprimere bene la “fiamma di Dio” che arde interiormente e non dà tregua a Mosè. E’ la stessa di cui parla Geremia: “Nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (Ger 20,9).
v.5. I sandali completano il simbolismo della scena. Essendo fatti con la pelle di un animale morto, sono impuri e non possono essere introdotti in un luogo santo dove ha accesso solo ciò che richiama la vita (anche oggi devono essere tolti prima di entrare in una moschea). Dicendo che Mosè è stato invitato a togliersi i sandali, l’autore sacro vuole affermare che egli è entrato in contatto con Dio. L’ispirazione che ha avuto non era una sua fantasia, una sua ambizione, ma proveniva dal Signore.
v.6. “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” (cfr Gn 28,13): è la riaffermazione del legame tra la religione patriarcale e la religione del Dio del Sinai, tra i clan del periodo patriarcale e il Dio che libera dall’Egitto per costituirsi un popolo.
v.7. Dio “vede” la miseria (povertà e oppressione, debolezza e umiliazione), “ascolta”,conosce”. L’iniziativa della salvezza è tutta di Dio, tutto parte da Lui.
v.8. Dio “scende”, è intenzionato a discendere in Egitto per sottrarre Israele alla schiavitù (“farlo uscire”) e introdurlo nel paese dove “scorre latte e miele”. In “farlo uscire” si esprime spesso un’azione divina, soprattutto nel senso di “trarre fuori”, “liberare, salvare”.  Israele ha conosciuto il suo Dio anzitutto come liberatore. Solo in seguito ha scoperto che egli è anche padre, madre, sposo, re, pastore, guida, alleato... La lettura racconta come è cominciata questa rivelazione del Signore al suo popolo
Nella solitudine e nel silenzio del deserto, mentre forse rifletteva sulla sorte del suo popolo in Egitto, Mosè è stato illuminato. Dio lo ha introdotto nel suo mondo, gli ha instillato nel cuore i suoi stessi sentimenti, la sua passione per la libertà degli oppressi. Gli ha fatto capire che, per realizzare il suo sogno, aveva bisogno di uno come lui. In questa esperienza spirituale intensa e profonda, Mosè si è reso conto anche delle difficoltà che un’impresa tanto ardua presentava e ha esposto al Signore la sua obiezione: “Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma essi mi diranno: come si chiama? Io, cosa risponderò loro?” (v. 13). Ecco la risposta di Dio nella seconda parte del brano.
Seconda parte
vv. 14-15. “Io sono colui che sono”. Alla base di quest’espressione c’è il verbo hyh che significa “essere all’opera” “essere operante”; quindi il nome vuole dire “egli era, è e sarà sempre operante per”. Perché Dio vuole essere chiamato in un modo così strano? Che significa questo nome che ricorre ben 6.828 volte nella Bibbia? Vuole dire: vi renderete conto chi io sarò; vedrete da ciò che farò chi sono io.
Cosa vedranno gli Israeliti? Non certo un Dio che se ne sta tranquillo in paradiso, impegnato a mantenere in ordine la contabilità dei peccati, che non vuole essere disturbato, che si disinteressa di ciò che accade sulla terra. Il Dio che si rivelerà a Israele sarà un Dio che vive con passione i problemi del suo popolo, che non tollera l’oppressione dei deboli, che interviene per liberare. Lui agisce sovranamente nella storia, è sempre presente ed é pronto a intervenire per noi.                                                                      Anche oggi, Dio non cambia nome. I suoi sentimenti nei confronti di chi soffre, di chi subisce ingiustizia, di chi è sottoposto a qualunque forma di oppressione e di abuso rimangono gli stessi. Non cambia nemmeno il modo con cui egli porta a compimento le sue liberazioni: si serve dei suoi angeli – è così che è chiamato Mosè (Es 23,20.23) – compie le sue opere attraverso coloro che si lasciano educare dalla sua parola, che coltivano nel cuore i suoi sentimenti e i suoi pensieri e che non hanno paura di correre rischi.
Seconda lettura: 1Cor 10,1-6.10-12
La comunità di Corinto è abbastanza buona, tuttavia, come succede ovunque, ci sono anche degli aspetti negativi: dissensi, immoralità, invidie. Alcuni cristiani sono convinti che basti il battesimo per essere sicuri della salvezza. Per correggere questa falsa certezza, Paolo porta l’esempio del popolo d’Israele. Dice: tutti gli israeliti hanno creduto in Mosè e lo hanno seguito; hanno attraversato il mar Rosso, sono stati sotto la nube, hanno mangiato la manna e bevuto l’acqua, fatta scaturire dalla roccia; ma, a causa delle loro infedeltà, nessuno di loro è entrato nella Terra Promessa.
La stessa cosa può accadere ai cristiani. Essi devono tenere presente che i favori di Dio non producono risultati in modo automatico e quasi magico. Non basta aver creduto in Cristo (nuovo Mosè), essere stati battezzati (il passaggio del mar Rosso), aver ricevuto lo Spirito (la protezione della nuvola), essersi cibati dell’Eucaristia (il Pane ed il Vino corrispondono alla manna e all’acqua del deserto). E’ necessaria una vita coerente, altrimenti anch’essi possono perdersi, come è accaduto agli Israeliti nel deserto.
Terza lettura: Lc 13,1-9
Il testo del Vangelo ci presenta due fatti diversi, legati tra di loro: un commento di Gesù riguardo ai fatti del giorno (la cronaca) ed una parabola. Luca 13,1-5: richiesto dalla gente, Gesù commenta i fatti attuali: il massacro dei pellegrini eseguito da Pilato e quello della torre di Sìloe che uccise diciotto persone. Luca 13,6-9: Gesù racconta una parabola, quella del fico che non dava frutti.
Spiegazione del testo                                                                             v. 1: La gente dà a Gesù la notizia del massacro dei Galilei
Come oggi, il popolo commenta i fatti che avvengono e vuole un commento da coloro che possono interferire nell’opinione pubblica. E così che alcune persone giungono vicini a Gesù e raccontano il fatto del massacro di alcuni Galilei, in pellegrinaggio a Gerusalemme per la Pasqua, dove offrirono  i loro sacrifici, come prescriveva la legge mosaica. La Pasqua celebra la liberazione dall’Egitto, è quindi inevitabile che risvegli in ogni Israelita aspirazioni alla libertà e accresca il sentimento di rivalsa contro l’oppressione romana. E’ possibile anche che questi Galilei, abbiano prima scambiato qualche battuta un po’ pesante con le guardie, poi dalle parole siano passati a vie di fatto: qualche spintone e scontro.
Pilato che, durante le grandi feste, è solito trasferirsi da Cesarea a Gerusalemme per assicurare l’ordine e prevenire sommosse, non tollera nemmeno l’accenno alla ribellione: fa intervenire i soldati che, senza alcun rispetto per il luogo santo, massacrano i malcapitati galilei. Un gesto brutale e sacrilego, un oltraggio al Signore, una provocazione nei confronti del popolo che considera il tempio dimora del suo Dio.
vv.2-3: Gesù commenta il massacro e ne trae una lezione per la gente
Interpellato a dare una opinione, Gesù chiede: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte?” La domanda di Gesù rispecchia l’interpretazione popolare comune dell’epoca: sofferenza e morte violenta sono il castigo di Dio per qualche peccato che la persona ha commesso. La reazione di Gesù è categorica: “No vi dico!” E nega l’interpretazione popolare e trasforma il fatto in esame di coscienza: “Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo!”. Gesù non si pronuncia direttamente sul crimine commesso da Pilato. Non vuole lasciarsi coinvolgere in quelle inutili conversazioni in cui ci si limita ad imprecare e a maledire. Egli non è certo insensibile alle sofferenze e alle disgrazie, si commuove fino alle lacrime per amore della sua patria. Tuttavia sa che l’aggressività, lo sdegno, l’ira, l’odio, il desiderio di vendetta non servono a nulla, anzi, sono controproducenti. Questi sentimenti portano solo a gesti sconsiderati che complicano ancora più la situazione.
vv. 4-5: Per rafforzare il suo pensiero Gesù commenta un altro fatto
Gesù stesso prende l’iniziativa di commentare un altro fatto: la morte di diciotto persone schiacciate dalle pietre, dopo il crollo di una torre nelle vicinanze della piscina di Sìloe.  Il commento della gente: “Castigo di Dio!”. Commento di Gesù: “No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. Queste persone – dice Gesù – non sono state punite a causa delle loro colpe: sono morte per una sventura, al loro posto potevano essercene altre. Anche questo avvenimento deve essere letto come un richiamo alla conversione che ci rende pronti alla morte in qualsiasi momento.
Il richiamo di Gesù alla conversione è un invito a cambiare maniera di pensare.
I Giudei coltivano sentimenti di violenza, di vendetta, di rancore contro gli oppressori. Questi non sono i sentimenti di Dio. E’ urgente che rivedano la loro posizione, che rinuncino alla fiducia riposta nell’uso della spada. Gesù non cerca di sfuggire al problema, propone una soluzione diversa. Rifiuta i palliativi. Invita a intervenire alla radice del male. E’ inutile illudersi che possa cambiare qualcosa semplicemente sostituendo coloro che detengono il potere. Se i nuovi arrivati non hanno un cuore nuovo, se non seguono una logica diversa, tutto rimane come prima. Sarebbe come cambiare gli attori di uno spettacolo senza modificare il testo che devono recitare.
Ecco la ragione per cui Gesù non aderisce all’esplosione collettiva di sdegno contro Pilato. Egli invita alla conversione, propone un cambiamento di mentalità. Solo persone divenute diverse, solo persone, dal cuore nuovo, possono costruire un mondo nuovo. Questa è la soluzione definitiva.
Quanto tempo si ha a disposizione per operare questo cambiamento di mentalità? Può essere dilazionato di qualche mese, di qualche anno? A queste domande Gesù risponde nella seconda parte del Vangelo di oggi (vv.6-9) con la parabola del fico.
vv. 6-9: La parabola del fico che non dava frutti
Nella Bibbia si parla spesso di questa pianta che, due volte l’anno, in primavera e in autunno, dà frutti dolcissimi. Nei tempi antichi, era il simbolo della prosperità e della pace (1Re 4,25; Is 36,16). Nel deserto del Sinai gli Israeliti sognavano una terra con abbondanti sorgenti d’acqua, campi di grano e... alberi di fico (Dt 8,8; Nm 20,5). Il padrone della vigna e del fico è Dio. Il fico è il popolo. Gesù è il vignaiolo. Il padrone della vigna si è stancato di cercare frutti nel fico, senza incontrarli. Decide di sradicare l’albero. Così ci sarà posto per una pianta che possa dare frutti. Il popolo scelto non stava dando il frutto che Dio aspettava. Vuole dare la Buona Notizia ai pagani. Gesù, il vignaiolo, chiede di lasciare il fico in vita ancora un poco. Aumenterà i suoi sforzi (zappare intorno, mettere concime) per ottenere il mutamento e la conversione.
Il messaggio della parabola è chiaro: da chi ha ascoltato il messaggio del Vangelo, Dio si attende frutti deliziosi e abbondanti. Non vuole pratiche religiose esteriori, non si accontenta di apparenze, ma cerca opere di amore.
A differenza degli altri evangelisti che parlano di un fico sterile che è fatto seccare all’istante o quasi  (Mc 11,12-24; Mt 21,18-22), Luca, l’evangelista della misericordia, introduce un altro anno di attesa, prima dell’intervento definitivo. Egli presenta un Dio paziente, tollerante con la debolezza umana, comprensivo per la durezza della nostra mente e del nostro cuore.
La parabola è un invito a considerare la Quaresima come un tempo di grazia, come un nuovo “anno prezioso” che viene concesso al fico  (ogni uomo)  per dare frutti.
Preghiera finale
O Dio, che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono, continua a effondere su di noi la tua grazia e concedici il dono della conversione, perché camminiamo verso i beni da te promessi e diventiamo partecipi della felicità eterna. Amen.

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