giovedì 20 maggio 2010

LECTIO DIVINA, DOMENICA DELLA PENTECOSTE, ANNO C.

Preghiera iniziale
Vieni Spirito Santo. Vento impetuoso, fuoco che divora, ma anche brezza leggera, scintilla di luce. Vieni in me. Parola potente, ma anche lieve sussurro. Vieni in me. Fresca cascata, ma anche rivolo d'acqua che estingue l'arsura ...Dammi occhi nuovi, dammi ali di libertà, dammi trasparenza di vita, dammi tenerezza e audacia e attenderò con te, nella speranza, il nuovo Giorno. Amen.
Prima lettura Att. 2, 1-11
Ci troviamo al secondo capitolo degli atti degli apostoli nel quale Luca ci regala due splendide icone, quella dello Spirito (2,1-13) e quella della Parola (2,14-41). La seconda dipende in modo determinante dalla prima: lo Spirito è la forza aggregante che fa di vari gruppi una comunità; la Parola è il dono che la comunità ha il compito di vivere e di comunicare agli altri. La lettura odierna si interessa della prima parte del capitolo, composta da una introduzione, con soggetto e luogo (v. 1), dalla rappresentazione del fatto e delle sue conseguenze sugli interessati (vv. 2-4), e, infine, dall'effetto su scala mondiale (vv. 5-11).
v.1. “mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo”.
La Pentecoste (in greco cinquantesimo giorno), originariamente era stata una festa agricola delle primizie e della mietitura ovvero, festa delle sette settimane, dei sette prodotti tipici della terra d’Israele: frumento, orzo, uva, fichi, melograni, olive, datteri. (cf Es 23,16); improntata alla gioia per il raccolto e ringraziamento per il dono ottenuto da Dio. Dopo l’esilio fu trasformata in festa commemorativa di un grande evento salvifico, cioè della promulgazione della legge sul Sinai e la stipulazione dell’alleanza avvenuta al cinquantesimo giorno dall’uscita dall’Egitto e dal passaggio (=pasqua) del Mar Rosso (Es 19,1-20). Infatti, folle di giudei, provenienti da tutta la Palestina e dai paesi della Diaspora, andavano in pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme per ricollegarsi al loro grande passato, riscoprire le radici del loro essere-comunità dell’alleanza, ritrovare l’amore alla legge mosaica. Quindi, per i giudei, la Pentecoste di quell’anno stava per concludersi; per la piccola e timorosa comunità riunita insieme e formata da apostoli e laici, da uomini e donne (cf. At 1,14); il giorno di Pentecoste stava per “compiersi”: tutta la storia di promesse veniva a compimento. Pertanto è opportuno premettere che la Pentecoste cristiana non si contrappone alla Pentecoste ebraica, né la sostituisce, bensì la porta a compimento.
vv.2-4: in questi versetti l’avvenimento è descritto con coppie di frasi coordinate, ciascuna delle quali presenta un soggetto e un effetto. la prima coppia presenta l’aspetto esterno dell’evento: un rumore che “riempie” la casa. La seconda racconta la visione dei protagonisti: delle “lingue” di fuoco. Queste prime annotazioni accomunano la scena alle grandi teofanie della letteratura giudaica (cfr. Es 19,16ss; Is 5,24). Terzo soggetto sono i discepoli riuniti, che vengono “riempiti” di Spirito Santo e iniziano a parlare in varie “lingue”.
L'esperienza dello Spirito avviene mediante i segni teofanici del vento e del fuoco che vengono dal cielo; non si tratta di suggestione umana, bensì di dono dall'alto. L'esperienza è soprattutto interiore, ma c'è bisogno di un riscontro esteriore che documenti la nuova realtà (cf. il caso del paralitico di Mt 9,l-8). Ecco allora il «parlare in altre lingue». Con questa immagine, Luca sembra volerci dire che i discepoli, ripieni dello Spirito Santo, godono della pienezza della stessa potenza divina, sono ora abilitati dal dono dello Spirito ad essere profeti, di annunciare la Parola di Dio a tutti i contesti sociali e culturali. Esso è un fenomeno della piena comprensibilità del dono della salvezza in tutte le lingue.
vv.5-13; In questi versetti, Luca vuole sottolineare il concetto dell’universalità. Si incontra infatti una lista di 13 popoli e paesi che egli riporta per sottolineare, secondo la geografia imperiale dell'epoca, questo senso di globalità. La lista è divisa in tre parti. Dapprima compare un gruppo di tre popoli che si trovano oltre il confine orientale dell'impero: «Siamo parti, medi ed elamiti» segue un secondo gruppo con nove regioni: «abitanti della Mesopotamia...»; un terzo gruppo si differenzia dai precedenti presentandosi così: «Romani qui residenti». Si distingue poi tra «Giudei e proséliti» (differenze etnico-religiose) e «cretesi e arabi», equivalente alla distinzione tra «abitanti delle isole e della terra ferma» (differenza culturale). Come si può osservare, la linea geografica si è mossa dall'area mediorientale per arrestarsi a Roma, dopo essere passata per le zone intermedie che collegano idealmente Gerusalemme con Roma. In quel giorno a Gerusalemme sono convocati i rappresentanti dei futuri cristiani. Insomma, il dono dello Spirito arriva a tutti. Lo Spinto non restituisce agli uomini un identico linguaggio, ma permette agli apostoli di parlare a individui di ogni lingua e di essere da loro compresi. Si riconosce il dono multiforme e variegato dei carismi e il miracolo-segno del nuovo popolo di Dio, mobilitato dalla forza unificante dello Spirito. Ciascuno dei destinatari, che insieme rappresentano l’universale popolo di Dio, riceve la rivelazione dell’unico Spirito nella maniera che gli è propria.

Seconda lettura Rom 8,8-17
Siamo nel cuore della Lettera ai Romani, dove Paolo, avendo ormai discusso il tema della giustificazione per la fede e non per le opere della Legge, descrive il dinamismo dello Spirito nel cuore e nella coscienza del credente. Possiamo dire che questo brano ci parla della “Pentecoste del credente”. Avviene nell’uomo, con il dono dello Spirito, un miracolo da nuova creazione che ne trasforma l’interiorità per un dinamismo di vita nuova che lo proietta sui sentieri della risurrezione-glorificazione finale.
Tutti i primi versetti (8-13) sono segnati dalla contrapposizione tra “carne” e “Spirito”. Per Paolo questi sono due principi operativi interni che producono stili e comportamenti di vita totalmente opposti. La “carne” è l’io umano ripiegato su se stesso, che tutto riconduce a sé. E per sapere che cosa Paolo intenda per “vivere secondo la carne” o per “le opere del corpo” che qui equivale a “le opere della carne” si legga l’esplicita enumerazione che egli ne fa nel brano di Gal 5,19-21: una lista di vizi e cose del genere, un intreccio di non-valori vasto e complicato, che ha soltanto sapore di morte.
Lo “Spirito”, invece, trasforma l’uomo-carne dal di dentro, lo rigenera e gli fa sperimentare quel “frutto” dello Spirito che in Gal 5,22 viene espresso non casualmente al singolare, quasi a voler sottolineare l’unità e l’armonia del “vivere secondo lo Spirito”, che in ultima istanza è un servizio d’amore. E l’amore apre opportunamente la lista delle esterne manifestazioni dell’unico Spirito: “Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà mitezza, dominio di sé (Gal 5,22).
vv.14-17: Dopo aver trattato dell'antitesi Spirito-carne, prende avvio il tema della figliolanza divina che si spinge fino al v. 30 (ben oltre il brano liturgico). L'esperienza dello Spirito è tematizzata come esistenza da figli di Dio. Il v. 14 è la tesi teologica che regge tutto il brano, fondata su due poli, la guida dello Spirito e la figliolanza divina: la seconda dipende dalla prima. Lo Spirito, principio di vita nuova in quanto abilita ad essere figli di Dio. Infatti, il cristiano non ha lo “spirito di schiavitù” cioè, non ha lo spirito dello schiavo, ma quello del figlio di casa. È libero nell’amore e per l’amore, perché si sa protetto e amato da Dio che, nel Figlio Gesù Cristo, lo ha adottato. Lo Spirito è anche principio di preghiera nuova. Tale novità non si limita al solo insegnamento, ma egli stesso prega in noi. Non dice quello che dobbiamo fare, ma lo fa con noi. Egli ci fa dire Abbà. Formula sconosciuta al giudaismo, è invece caratteristica del Figlio di Dio, Gesù Cristo. Lui solo poteva dire in tutta libertà tale titolo (cf. Mc 14,36), e lui solo poteva autorizzare i credenti a ripeterlo (cf. Gal 4,6). Giunge così a conclusione il cammino dell'Antica Alleanza: si era partiti da una paternità rispettosa ma lontana, e si arriva ad una paternità, sempre rispettosa ma confidenziale. Gesù ha insegnato a colloquiare con Dio con il linguaggio semplice, spontaneo e fiducioso del bambino che si rivolse a suo padre chiamandolo teneramente 'papà', 'babbo'. È lo Spirito che fa ripetere questa dolce parola, che infonde il sentimento della figliolanza divina che ci fa sentire figli di Dio (cf. v. 16). Anche da questa prospettiva si coglie la dimensione trinitaria della vita cristiana.
Il Vangelo Lc Gv 14,15-16.23-26
Contesto:
Il brano evangelico odierno è stato letto, in parte, nella 6a domenica di Pasqua. In quel contesto è stato sottolineato l’aspetto ministeriale che lo Spirito, secondo la promessa di Cristo, ha nella missione della Chiesa: insegnare ogni cosa, ricordare l’evento-parola del Verbo rivelatore e salvatore (vv.25-26). È stato commentato anche l’intima connessione esistente nella vita dei credenti tra “amare Gesù” e “osservare i suoi comandamenti” (vv.15.23-24). Nella riflessione di oggi ci si lascerà guidare dal v. 16. “io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre.”
Spiegazione.
Gesù risorto aveva detto: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28,20b). Si può leggere in parallelo la promessa di Gesù nel Vangelo di Giovanni: “il Padre vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre.” Gesù è stato il primo Consolatore-Protettore dei discepoli nel suo ministero terreno, ora finito; lo Spirito Santo è il “secondo Consolatore” che accompagna la chiesa nel suo cammino fino alla fine del mondo. Inoltre, per sempre non indica solamente una durata temporale. Assicura alla nostra vita che lo Spirito rimarrà con noi anche nei tempi e nei luoghi del nostro peccato e della nostra lontananza da Dio, purché custodiamo la parola di Gesù, nel senso che diamo credito alla sua promessa, affidandoci alla sua potenza di perdono e di misericordia.
Vi troviamo, per lo Spirito, il particolare titolo «Paraclito». Esso compare in tutto il NT cinque volte e ricorre solo nei discorsi di addio (Gv 14,16.26; 15,26; 16,7) e nella prima lettera di Giovanni (1Gv 2,1). Il significato base è quello di “chiamato presso” (dal greco kaléo “chiamare” e pará “presso”, cf. latino advocatus, italiano”'avvocato”). Non sembra avesse un significato tecnico, indicando piuttosto un amico o una persona di fiducia “chiamata in aiuto” in occasione di crisi o difficoltà. La radice greca indica anche il conforto, la consolazione che, sappiamo da altri scritti (cf. 1Cor 14,1-3; At 9,31) apparteneva all'attività dello Spirito.
Quindi il cristiano non ha bisogno di vivere con gli occhi rivolti costantemente verso il cielo dal quale dovrà ritornare il Figlio dell’uomo, e neppure con gli occhi rivolti ad un passato, al Gesù terreno, che ormai non è più. Il cristiano ha a che fare con una forma nuova di presenza di Gesù Cristo: Il Consolatore, il Protettore, il Sostegno è d’ora in poi lo Spirito Santo, che attinge a Gesù e non ha altra funzione che non sia quella di rendere comprensibile e attuale il Gesù terreno. Mediante lo Spirito Santo, Gesù può estendere al mondo intero l’opera della redenzione dapprima limitata ad un tempo e ad uno spazio ristretti. Prima lo Spirito era legato alla persona storica di Gesù e agiva attraverso la sua persona; dopo la partenza-glorificazione di Cristo, lo Spirito è presente con la chiesa e nella chiesa e, tramite essa, agirà nel mondo intero.
Come attraverso una forma nuova di “incarnazione”, mediante lo Spirito Santo è all’opera la stessa potenza di vita, viene offerta la medesima salvezza. La Pentecoste realizza “le cinque promesse” fatte da Gesù nel suo discorso di Addio (Gv 14,16-17 e 26; 15,26-27; 16,5-11 e 12-15); e la promessa di Gesù prima di ascendere al cielo: “Voi riceverete una forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni…fino agli estremi confini della terra”
( At 1,8)
Preghiera finale:
Spirito Santo, eterno Amore, che sei dolce Luce che mi inondi e rischiari la notte del mio cuore; Tu ci guidi qual mano di una mamma; ma se Tu ci lasci non più d'un passo solo avanzeremo! Tu sei lo spazio che l'essere mio circonda e in cui si cela. Se m'abbandoni cado nell'abisso del nulla, da dove all'esser mi chiamasti. Tu a me vicino più di me stessa, più intimo dell'intimo mio. Eppur nessun Ti tocca o Ti comprende e d'ogni nome infrangi le catene. Spirito Santo, eterno Amore.
(Edit Stein [S. Teresa Benedetta della Croce], Carmelitana).

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